«Denunciate, può salvarvi la vita» 

Gagliardone (Comitato antiviolenza): molti casi in famiglia, ma anche sul lavoro

PESCARA. Il passo più difficile è uscire allo scoperto. Mostrare i segni delle percosse sul corpo, i lividi delle mani strette intorno al collo, gli occhi gonfi di lacrime e botte. Interrompere la spirale della violenza è un atto di coraggio che richiede forza d'animo e presa di coscienza. Il superamento del "potere dell'uomo", di quel dominio a tutti i costi, perpetrato magari per anni, tra le mura domestiche o in ambito lavorativo. Un vincolo che attanaglia, distrugge, annienta fino a sfociare nell'epilogo drammatico del femminicidio. Doriana Gagliardone (foto), presidente del centro antiviolenza "Ananke", racconta storie di donne che hanno tutte un comune denominatore: il filo rosso della violenza.
Qual è la situazione in Abruzzo?
«Registriamo un trend costante di crescita di soprusi e maltrattamenti. Ogni anno raccogliamo circa 600 contatti telefonici, che passano attraverso la linea nazionale 1522. Spesso a chiedere informazioni sono familiari o persone molto vicine alle vittime e questo testimonia la paura di uscire allo scoperto, di spezzare le catene della costrizione. Hanno timore di perdere i figli, di restare sole e indifese, di non avere alternative alla denuncia, ma il Centro antiviolenza non è un servizio di assistenza sociale. Garantiamo il totale anonimato, tutto avviene in un regime di assoluta riservatezza».
Quando una donna vittima di violenza si rivolge ad Ananke scatta un programma di tutela?
«Le vittime vengono immediatamente indirizzate ad un'operatrice di accoglienza, che segue il percorso delle donne con un'attenta analisi del rischio. L'obiettivo principale è la salvaguardia della vita e l'interruzione del maltrattamento per, poi, riprogettare la loro vita rendendole autonome, anche economicamente, e aiutandole a prendere piena coscienza di quanto accaduto».
Dove attecchisce più facilmente il seme della violenza?
«Il 90 per cento dei casi che trattiamo è relativo all'alveo domestico, all'interno di una relazione. L'elemento della pressione psicologica rappresenta una costante, che accompagna sempre anche la violenza fisica. Direi un 35 per cento in entrambi i casi. Poi, c'è la violenza economica che viene esercitata impedendo alla donna di lavorare o di gestire il denaro che guadagna. Questo le fa sentire deboli, inutili, sconfitte e il riscatto diventa sempre più difficile».
In che condizioni arrivano le vittime di violenza?
«Con lividi e segni di percosse in tutto il corpo; a volte hanno le braccia rotte, traumi e fratture. È l'aspetto più crudo del sopruso, ma anche quello più facilmente rilevabile. Il vero tarlo che rode dentro è la pressione psicologica, la minaccia continua di ritorsioni, la paura di vedersi sottrarre i figli. Molte donne si lasciano vincere dalla paura. Qualche caso lo abbiamo riscontrato anche in abito lavorativo, con molestie e mobbing, sempre difficili da dimostrare».
Quanto è difficile fare uscire allo scoperto i casi di maltrattamenti?
«La paura di denunciare a volte ha la meglio. Il percorso di rinascita è lungo, soprattutto se si è state vittime di soprusi per anni. Può durare dai sei ai dodici mesi e andare anche oltre. Forniamo consulenza psicologica, legale, persino tirocini formativi. L'appello è a denunciare, ad allontanarsi dall'uomo violento, che difficilmente cambierà. L'errore che viene commesso è di sottovalutare il rischio: chi esercita il dominio, continuerà a farlo».
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