Fede e ragione nell’era Ratzinger

Via crucis. Un viaggio tra le spine e le croci della sua amata Chiesa quello che intraprende oggi Papa Ratzinger. Benvenuto a Sulmona, cittadina di antica spiritualità, poco più di un'ora di auto dalla capitale della cristianità. Ma qual è l'unità di misura per calcolare la distanza tra il Vaticano e quella parte del mondo cattolico sempre più disorientata di fronte alle notizie inquietanti che coinvolgono le gerarchie ecclesiastiche?

Celestino e Benedetto: l'incontro tra la Storia e l'attualità. Il pontefice di oggi ha ammesso con sofferenza che i pericoli più grandi per la Chiesa provengono dal suo stesso corpo: «Il danno maggiore lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità». Parole sincere quanto coraggiose. Che rimbalzano nel passato.

«Il popolo cristiano bada di più a quello che i preti o i frati fanno che a quello che essi dicono». Così parla Pietro Angelerio dal Morrone, l'umile eremita diventato Celestino V. O almeno così lo fa parlare Ignazio Silone in «L'avventura di un povero cristiano». Lo scrittore marsicano - socialista senza partito, cristiano senza chiesa - dedicò nel 1968 il suo ultimo romanzo alla parabola del Papa del gran rifiuto. Ecco come in una Napoli medioevale, sotto la invadente protezione della corte angioina, l'anziano Celestino - secondo Silone - si rivolge ai chierici del tempo, così scettici e irridenti: «Il cristianesimo non è un modo di dire, ma un modo di vivere. E non si può decentemente predicare il cristianesimo agli altri, se non si vive da cristiani.

Questa è dunque la mia paterna avvertenza; predicatori miei cari, volete essere creduti? Cercate di essere dei buoni cristiani, fate il bene e fatelo di cuore. Non lo fate per furberia, non per tornaconto, non per essere popolari, non per far carriera».

Sette secoli dopo Benedetto XVI si ritrova a dover fronteggiare un potere gerarchico - di cui pure egli stesso è stato autorevole e influente esponente - restio alla trasparenza, resistente al principio di responsabilità, a volte compromesso con gruppi affaristici. Come il Pietro Angelerio del 1294 così il Joseph Ratzinger del 2010 si trova al bivio: le lusinghe della mondanità o la purezza dei principii. La carne e lo spirito.

Dante collocò Celestino V all’Inferno, nel girone degli ignavi, tacciandolo di viltà. E però resta unico nella storia della Chiesa, Sommo Pontefice che in vita rinuncia al trono di Pietro. Simbolo eterno per i cristiani di un dilemma irrisolto: essere nel mondo senza essere del mondo. Santo sì, dunque, ma inquietante per il potere costituito. Eccolo dunque relegato con l’aiuto del tempo in una dimensione provinciale: venerato all’Aquila, ignorato a Roma.

Si comprende meglio - anche per chi è lontano dalla vita della Chiesa cattolica - il valore simbolico della visita odierna. E’ il momento più alto delle celebrazioni celestiniane; mai in epoca recente un Papa ha celebrato in forma così solenne la figura dell’eremita del Morrone. E’ la scelta di Ratzinger, il teologo che intende coniugare fede e ragione, due mondi tuttora separati. Suscitando incomprensioni e polemiche. Notevole lo sforzo di modernizzazione compiuto con l’ultima enciclica, complesso lavoro di aggiornamento delle posizioni della Chiesa rispetto ai conflitti sociali e allo sviluppo economico globalizzato del nuovo millennio: la dottrina sociale - si afferma - è «aperta alla verità da qualsiasi parte provenga». («Caritas in veritate», 9). Chi ha il dono della fede e chi esercita il laico dubbio: come non essere d’accordo?

Se durante il pontificato di Giovanni Paolo II ha prevalso la presenza fisica del Pastore di Roma tra le folle osannanti del mondo, in Benedetto XVI sembra prevalere il peso della parola. Con le ambiguità e le insidie proprie di una società di comunicazione di massa abituata a messaggi semplificati e iperveloci. Oggi però è il gesto stesso - la giubilazione di Celestino - a prevalere sul ragionamento. E’ una giornata da ricordare. Non solo in Abruzzo. Benvenuto Benedetto.

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