«L’arte della scenografia» di Lucci in una versione aggiornata dopo i due Oscar

Ferretti: «Creo atmosfere»

L’artista marchigiano protagonista del volume Electa

«Ferretti. L’arte della scenografia» è un titolo che induce a una identificazione dell’artista, con il suo lavoro. E’ il titolo, questo, che Gabriele Lucci, direttore scientifico della collana Protagonisti del cinema della Electa-Mondadori, ha scelto per il suo volume-omaggio allo scenografo marchigiano (384 pagine, 69 euro). Il libro era uscito nel 2004 e quasi come portafortuna aveva propiziato l’Oscar a Dante Ferretti e alla moglie, Francesca Lo Schiavo, per «The aviator» di Martin Scorsese.
«Ho voluto farne una nuova edizione», spiega l’aquilano Gabriele Lucci, «perché poi Dante di Oscar ne ha avuti due (uno anche per “Sweeney Todd” di Tim Burton nel 2008, ndr) e non parlarne sarebbe stato un peccato».
Dante Ferretti, marchigiano di Macerata, 67 anni da compiere tra 9 giorni, due Oscar, e un’infinità di altri premi, ha risposto alle domande del Centro.

Maestro, il titolo del libro che Lucci e la Electa le hanno dedicato si intitola «L’arte della scenografia», quasi a suggerire che il suo nome ne è la sintesi. Ma cos’è l’arte della scenografia?
«Non lo so se è proprio l’arte. Le posso dire quello che è la scenografia. Tanto per cominciare la parola scenografia non mi piace. Comunque diciamo che è ciò che uno costruisce, o ricostruisce, si inventa. E’ nata per il teatro, poi per l’opera, e infine è stata usata nel cinema. L’intento è dare un’emozione allo spettatore non solo attraverso la recitazione o la musica. Diciamo che la scenografia è quello che c’è dietro l’attore, dietro la storia. Ma a volte la responsabilità dello scenografo è anche nel trovare i posti giusti dove girare. Nel Neorealismo, per esempio, giravano per strada perché non c’erano i soldi per farlo negli studi, ed è nato un filone cinematografico. L’arte della scenografia è, anche, ricreare un ambiente che ti dia un’atmosfera, cercando di coinvolgere lo spettatore nell’insieme del film. Una emozione che aiuta a portare lo spettatore all’interno della storia. L’arte è quello di farlo senza che lo spettatore se ne accorga, che venga catturato dal film».

Lei ha lavorato con i maggiori registi, da De Palma a Fellini. Con chi è riuscito a realizzare più facilmente le sue idee?
«Sono un po’ un camaleonte, perché mi adatto sempre alle esigenze dei registi con cui lavoro. Ho avuto la fortuna di lavorare con i grandi e mi sono sempre trovato bene con tutti. Io mi metto lì, cerco di capire la storia, la personalità del regista. A volte è importante anche la maniera di porsi, di dare dei suggerimenti, è un lavoro anche diplomatico».

Gli italiani hanno ruoli centrali, e lei e sua moglie ne siete uno degli esempi più brillanti, nell’industria hollywoodiana. Perché?
«Dobbiamo chiederlo agli altri, a chi ci sceglie. Devo dire che io ho lavorato con una generazione a me più vicina. Ci hanno conosciuto con il cinema italiano. Poi credo che serva sempre un po’ di fortuna. Ci è andata bene».

Il fatto di provenire da una città di provincia per lei è stato un ostacolo o le ha dato una carica superiore?
«E’ stato sicuramente una carica. Io ho sempre pensato di fare il cinema, ero affascinato anche perché in provincia c’era solo quello. Da bambino dicevo che volevo fare il cinema, anche se non sapevo effettivamente cosa volevo fare. Poi uno scultore di Macerata, un mio amico, Umberto Peschi, che era del gruppo di Prampolini, mi disse: “Potresti fare lo scenografo”. E ho trovato la mia strada: sono andato via da Macerata a 16 anni per studiare a Roma».

Ennio Morricone sostiene che la sua musica non sia parte fondamentale di un film. Spero che lei non dica la stessa cosa a proposito delle sue scenografie.
«E’ una maniera di porsi come la mia, da low profile. Sì la scenografia non è fondamentale, ma certo non è secondaria. A meno che uno non fa un film contro un muro (sai che palle). Fa parte del lavoro di gruppo che si fa per un film».

«Mi sorprendo ancora quando penso che uno degli artisti migliori che abbia mai lavorato nell’ambito dell’allestimento scenografico sia diventato uno dei miei collaboratori più validi. Non riesco ancora a credere di aver realizzato con lui sei film». Sono le parole di Martin Scorsese. Poi avete fatto insieme «The aviator», per cui lei e sua moglie avete preso l’Oscar, e ancora «Shutter island» (che uscirà venerdì negli Stati Uniti e il 5 marzo in Italia). Come si lavora con lui?
«Per la verità con lui sto facendo anche il prossimno (ride). Come si lavora? Bene. L’ho conosciuto quando facevo con Fellini “La città delle donne”, 30 anni fa. Mi ha chiamato per “L’ultima tentazione”, ma ero occupato per il “Barone di Münchausen” di Gilliam. Poi mi ha chiamato per “L’età dell’innocenza” e io sono corso. E’ un genio assoluto, ha una conoscenza del cinema spaventosa e una memoria incredibile».

Quanto, due miti del cinema come lei e il regista italoamericano, si influenzano l’un l’altro?
«Beh, lui ha le idee molto chiare, all’inizio parliamo tantissimo. Poi, però, lascia molto spazio. Penso, perché si fida di me. Io gli preparo le cose e lui le accetta».

Lei ha realizzato anche molti lavori per l’opera. Ha un diverso approccio per una scenografia nell’un campo e nell’altro?
«No, la diversità sa qual è? E’ che nell’opera si apre il sipario e si vede subito il tuo lavoro. Nel cinema, invece, passa tanto tempo da quando inizi a lavorare a quando poi lo spettatore vede il film, e lo scenografo del suo lavoro quasi se ne è dimenticato. L’emozione, nell’opera, invece è data dalla “diretta”. Adesso hanno fatto il 3D così magari su una scrivania c’è un martello che ti cade addosso, e speriamo cada addosso a qualche critico».

Lei ha vinto tutti i premi possibili. Ce n’è qualcuno che le manca?
«Il Superenalotto (ride)».