Fucino: da Giulio Cesare alle lotte dei contadini

La piana della Marsica fra grandi progetti idraulici e le battaglie dei braccianti contro il latifondo

AVEZZANO. Intorno al lago Fucino, fin dalla preistoria, si insediarono popolazioni, provenienti dal versante adriatico, che vivevano di caccia e di pesca. Il lago per queste genti rappresentava una fonte di sostentamento. Per quelle che, molti secoli dopo, si dedicheranno all'agricoltura, il lago diventerà una maledizione.

Le continue inondazioni distruggevano i raccolti e trasformavano i campi in palude. C'era un solo modo per liberare le popolazioni del Fucino da questo flagello: prosciugare il lago. Basterebbe scavare una galleria sotto il monte Salviano e far defluire le acque del lago nel Liri.

A tentare l'impresa per primo fu Giulio Cesare. Ma il suo progetto rimase inattualo. A riprenderlo fu l'imperatore Claudio, mosso dal desiderio di gloria, ma anche dalla prospettiva di diventare proprietario delle terre liberate dalle acque e di rendere navigabile l'alto corso del Liri.

Alcuni privati si offrirono di realizzare l'opera a proprie spese, a condizione di diventare padroni delle terre prosciugate. Esattamente quello che nell'Ottocento farà Alessandro Torlonia. Ma Claudio respinse l'offerta.

Per la realizzazione dell'opera, ci vollero 11 anni (dal 41 al 52 d.C). E vi lavorarono 30mila schiavi. La galleria era lunga 5.653 metri e aveva una pendenza media di 1,50 metri per chilometro. Per consentire il trasporto dei materiali all'interno del tunnel e assicurare la necessaria areazione fuorno scavati 40 pozzi verticali e 8 gallerie inclinate, dette "cunicoli".

L'inauguarzione avvenne in due tempi. La prima fu preceduta da una battaglia navale (naumachia). Alla battaglia assistette una moltidutine di spettatori accorsi dai paesi vicini e persino da Roma. Terminato lo spettacolo, fu aperto l'emissario. La delusione fu grande. Il deflusso dell'acqua, infatti, fu lento e limitato, per un difetto di costruzione della galleria. Dopo avervi fatto apportare delle modifiche, Claudio indisse uno spettacolo gladiatorio. L'imperatore volle dare anche un banchetto, all'imbocco dell'emissario. Il deflusso dell'acqua stavolta fu così violento da seminare il panico tra gli spettatori.

Agrippina, moglie dell'imperatore, allora, davanti a tutti, accusò Narciso, il liberto cui Claudio aveva affidato la direzione dei lavori, di avere giocato al risparmio nella realizzazione dell'opera, mettendosi in tasca parte dei fondi stanziati. L'imperatrice non aveva tutti i torti.

L'ingegnere Alessandro Brisse, che nell'Ottocento diresse i lavori dell'emissario Torlonia, osservò che i costruttori dell'emissario di Claudio, pur conoscendo bene la pozzolana, avevano impiegato calce e sabbia. L'emissario di Claudio non consentì un prosciugamento completo del lago. E ciò non per errori di progettazione, come riteneva Brisse, ma perché dai calcoli fatti da Afan de Rivera, ministro dei lavori pubblici di Ferdinando II di Borbone, l'imbocco della galleria si trovava 1,2 metri sopra il fondo del lago.

L'opera, per i tempi in cui fu realizzata, è un miracolo di ingegneria idraulica.

Di essa hanno parlato molti scrittori latini: da Plinio il Vecchio, che fu testimone oculare, a Tacito, da Svetonio a Marziale.

Dopo Claudio, il prosciugamento si arrestò. Fu ripreso e portato a termine da Traiano e Adriano, risparmiando forse la parte più bassa del lago, il "bacinetto". Che, Mario Spallone, ex sindaco di Avezzano, più volte ha proposto di riallagare per risolvere il problema dell'irrigazione nel Fucino.

Nei secoli successivi, mancando la manutenzione, l'emissario di ostruì e il lago tornò allo stato originario.

Le inondazioni continuarono e con esse i disagi degli agricoltori. Tentativi di riattivare l'emissario furono fatti da Federico II di Svevia e Alfonso d'Aragona. Ma senza successo. Fu merito di Ferdinando II di Borbone portare a compimento l'impresa.

Gli Stati preunitari, non avendo adeguati strumenti tecnici e soprattutto finanziari, per realizzare opere pubbliche, come ferrovie e bonifiche, fecero ricorso al sistema delle "concessioni".

Al concessionario veniva affidata la gestione del servizio realizzato per consentirgli di recuperare il capitale investito. Ciò rientrava nella logica del liberalismo economico che andava affermandosi in tutta Europa. Al sistema delle concessioni ricorse il Regno borbonico per il prosciugamento del Fucino.

Nel 1853, fu costituita una società, a prevalente capitale inglese e francese, che si sarebbe accollata tutte le spese per il prosciugamento del lago, in cambio della proprietà delle terre prosciugate.

La concessione prevedeva la consegna dei lavori entro otto anni. Il progetto fu redatto da un gruppo di ingegneri inglesi. Presto però gli azionisti inglesi e francesi si ritirarono.

La società concessionaria rimase di proprietà dei soci italiani. Alessandro Torlonia decise allora di entrare nell'operazione. Prima acquistò la metà delle azioni. Poi rilevò l'intero capitale sociale.

Non soddisfatto del progetto degli inglesi, Torlonia incaricò l'ingegnere Frantz Mayor de Montricher, di Marsiglia, di redigere un nuovo progetto.

Tra i tanti problemi, de Montricher dovette risolvere anche quello realativo alla capacità ricettiva del Liri, in cui dovevano confluire le acque, che, dai dati raccolti, determinò in 50 metri cubi al secondo.

Verso la fine del 1854, il progetto fu approvato e i lavori poterono iniziare. La direzione dei lavori fui affidata all'ingegnere Brisse.

Per realizzare l'opera c'era bisogno di manodopera specializzata. Dei 4mila operai impiegati, solo una piccola parte fu reclutata localmente. Gli altri erano immigrati.

Nel 1861 fu proclamato il Regno d'Italia. Tra Torlonia e il nuovo governo sorsero delle controversie di natura catastale. Ma furono superate e i lavori del nuovo emissario proseguirono senza intoppi.

Nel 1862 ci fui il primo deflusso delle acque. I lavori furono ultimati nel 1869, dopo 15 anni: quasi il doppio del tempo inizialmente previsto.

La galleria realizzata, tutta rivestita in pietra da taglio e malta idraulica, è lunga 6.301 metri, ha una pendenza di 2 per mille nei primi 250 metri e di uno per mille per i restanti, e una portata di 49 metri cubi al secondo.

Realizzato l'emissario, iniziarono i lavori di canalizzazione e di bonifica dell'alveo, che si conclusero nel 1875.

Torlonia ricevette dal re Vittorio Emanuele II il titolo di principe.

Col prosciugamento si resero disponibili oltre 15mila ettari di terreno: I.700 furono restituiti ai comuni rivieraschi, 13mila diventarono di proprietà di Torlonia.

«Il principe», ha osservato Marcello Vittorini, ex docente di Architettura alla Sapienza, «si trovò così a monopolizzare il mercato delle derrate alimentari della capitale».

Torlonia coltivò in proprio parte dei terreni (2.800 ettari), il resto lo diede a mezzadria (900 ettari) e in affitto (9.300 ettari). Gli affittuari, famiglie particolarente influenti, a loro volta, suddivisero e diedero in subaffitto i terreni, realizzando grossi profitti.

I contadini, ridotti alla miseria, presero via via coscienza della loro condizione di sfruttati e iniziarono una dura lotta (ci furono anche delle vittime ad Ortucchio e a Celano) per diventare proprietari delle terre che coltivavano.

Lotta che si concluse nel 1950, con il varo della riforma agraria, che espropriava Torlonia e assegnava le terre ai contadini che le avevano in affitto. Gli assegnatari furono 9.100.

Nasceva la piccola proprietà contadina, che avrà un ruolo determinante nello sviluppo e la crescita economica del Fucino.

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