Il ciclismo e Nibali secondo Di Luca: "Felice per lui, ma mi ha ferito. Appesa la bici posso rivivere"

Intervista esclusiva all'ex ciclista: "Quando corri vivi in una bolla, isolato da tutto. Oggi produco bici e faccio tardi quando voglio. Nibali è stato mio gregario: le sue critiche mi hanno toccato, ma se vince un italiano sono contento"

PESCARA. Sono passati trent’anni da quando il piccolo Danilo Di Luca, sulle orme del fratello maggiore, imbracciò la prima bici da corsa per misurarsi con le gare. Molta acqua (e molte pedalate) è passata sotto i ponti: quella che all’inizio era un’irrefrenabile passione è sfociata in una carriera fatta di incredibili picchi e di altrettanto profonde cadute: successi memorabili, come un Giro d’Italia e le grandi classiche in linea, ma anche la clamorosa radiazione per doping, dopo che “il killer di Spoltore”, durante il Giro dello scorso anno, era stato fermato per l’ennesima positività all’Epo.

Ne sono seguite polemiche feroci, con il licenziamento, l’addio forzato al ciclismo e la riprovazione del mondo dello sport, a cominciare da quel Vincenzo Nibali che in questi giorni sta trionfando al Tour. Di Luca non si è tirato indietro e in una clamorosa intervista a Le Iene ha rilanciato sostenendo che così fan tutti. Ovvero che senza “aiuti” non si può vincere in uno sport così massacrante. Oggi, a 38 anni, Di Luca ha voltato pagina: l’abbiamo incontrato a Pescara, città nella quale vive, portando avanti un progetto imprenditoriale. Ovviamente nel campo delle bici.

Com’è cambiata la tua esistenza, dopo il brusco addio al ciclismo?

«È una vita più normale, non da sportivo e basta. Quando corri in bicicletta a certi livelli, non sai niente del mondo, vivi in una bolla. E sei sottoposto a una tensione fisica e mentale continua. Ora conosco persone al di fuori dell'ambiente, esco la sera e faccio tardi, posso scegliere quando andare in vacanza, posso fare altri sport senza paura d’infortunarmi. Soprattutto non ho più lo stress di informare qualcuno dei miei spostamenti quotidiani per essere sottoposto ai controlli antidoping».

Chi ti è rimasto vicino e chi invece ti ha voltato le spalle?

«Mi sono rimaste vicine poche persone, le più preziose. Chi mi ha voltato le spalle non conta. E non faccio nomi».

Come si comporta la gente di Pescara nei tuoi confronti?

«Le persone che mi fermano sono gentili e affettuose, di solito si complimentano, non solo per le vittorie, anche per le mie dichiarazioni pubbliche. Sicuramente c’è anche chi parla male di me, non è difficile immaginarlo. Alla fine resta quello che ho vinto, gli sportivi sanno quanto sia difficile vincere stando fuori da certi ambienti del ciclismo».

La tua carriera ciclistica è iniziata esattamente 30 anni fa, quando ne avevi appena 8, lo rifaresti?

«Certo che lo rifarei, rifarei tutto».

Il momento più bello?

«Il 2007. La vittoria della Liegi-Bastogne-Liegi, un'emozione arrivata tutta d'un colpo. I belgi e la gente del Nord Europa mi hanno sempre dimostrato un grande affetto. E poi la vittoria del Giro d'Italia, un traguardo costruito giorno per giorno. Un sogno che avevo sin da bambino».

E il momento che vorresti dimenticare?

«Quando mi hanno trovato positivo la prima volta al Giro del 2009: non ero preparato. La cosa più terribile è stata la reazione dell'ambiente, molti di quelli che mi hanno additato come la mela marcia hanno fatto le stesse cose per cui ero accusato. È stato un primo spartiacque, ho capito chi mi stava vicino per affetto e chi per interesse. Lì ho cominciato a capire qualcosa in più della vita».

Che consiglio daresti a un bimbo di 8 anni che inizia oggi l'avventura delle corse in bici?

«Lo stesso consiglio che mi diede il mio primo allenatore Mario Di Nicola: prima studiare e poi andare in bici per divertimento. I ragazzi del 2006 sono più esposti, più fragili, anche se attraverso la rete hanno accesso a un mondo di informazioni che noi non ci sognavamo nemmeno. Se penso al ciclismo, oggi i giovani si affacciano a una realtà più difficile, con regole che non sono uguali per tutti, in cui la logica dominante è “morte tua vita mia”. Sì, nel ciclismo di oggi molti fattori che non c'entrano niente con la prestazione, possono influire sulla vittoria in modo decisivo».

Ti tieni ancora in forma con la bici?

«Mi alleno poco, vado in bici quando ne ho voglia. La bici è tornata a essere puro piacere, ci vado perché amo andarci, punto».

Che cosa puoi mettere a frutto sul lavoro della tua esperienza sportiva?

«Tutto. Ci sono corridori professionisti che si limitano ad andare bicicletta ed altri, pochi, che guidano la bici: quando correvo ero già un tecnico, un perfezionista, curavo ogni dettaglio del mio mezzo. Oggi sono un progettista, costruttore e un collaudatore che sfrutta trent’anni di pedalate fatte, di centinaia di migliaia di chilometri in sella, su ogni strada e con ogni clima. Riesco a sentire l'anima della bici, so sviluppare un prodotto all'avanguardia tenendomi al passo con la tecnologia, che cambia di anno in anno.

Che tipo di biciclette produci? Per quali clienti?

«Sono modelli di alta gamma, con un prezzo che va da 2mila a 10mila euro. Sono bici da corsa, da strada, anche se produco pure qualche mountain bike. E sto guardando all’elettrico e alla pedalata assistita, che in Italia sono considerati il futuro, mentre all’estero sono già il presente».

Che effetto ti fa vedere Nibali in maglia gialla, dopo le critiche che ti indirizzò ai tempi della radiazione?

«Sono contento se un italiano vince il Tour, soprattutto perché Nibali è stato un mio gregario e compagno di squadra. All'epoca già sapevo che avrebbe potuto indossare la maglia gialla, per me non è una sorpresa. Proprio per l'amicizia che ci legava, le sue dichiarazioni mi hanno toccato molto».

Perché, contrariamente, ad altri campioni del ciclismo e di altri sport, hai deciso di non lasciare mai Pescara e l’Abruzzo?

«Perché Pescara è la mia città, le persone che amo di più sono qui, ci vivo bene. C'è mare, montagna e collina, c'è tutto. Quando mi allenavo, i nostri percorsi erano adattatissimi per il mio lavoro».

Come vedi l’Abruzzo oggi?

«L'Abruzzo è una terra meravigliosa, piena di risorse e di gente in gamba. Per valorizzare quello che abbiamo dovremmo investire sul turismo in modo sistematico, con un progetto serio. Altrimenti diventa difficile risollevarsi».

Hai rimpianti, ripensando a quel che accadde l’anno scorso?

«Il rimpianto non mi appartiene, non fa parte del mio carattere. Potevo correre altri due o tre anni e vincere ancora, fare bene. Ero in un’ottima condizione, fisicamente ero integro e potente, nonostante i miei 37 anni. Sa cosa le dico? Che se penso al Giro di quest'anno non avrei certo sfigurato».

Hai mai pensato di scrivere un libro, per raccontare tutto quel che hai vissuto?

«Sì, ci sto pensando. Mi è piaciuto moltissimo “Open” di André Agassi, perché non parla solo di una vicenda, è il libro di una vita. Ti fa capire quante emozioni e quanta sofferenza ci siano dietro un campione dello sport. E ti fa venire voglia di andarlo a vedere questo sport, anche se non sei appassionato. Ecco, mi piacerebbe trasportare nel ciclismo un racconto di questa profondità».

Come ti vedi tra dieci anni? Ti sarebbe piaciuto rientrare nel mondo del ciclismo, magari al volante di un’ammiraglia?

«Onestamente no, rientrare nel ciclismo comunque non mi interesserebbe. A meno che mi ci porti il lavoro, magari con l’incremento nelle vendite dei modelli che produco e che sto cercando di esportare sempre di più».

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