L’analisi attenta dei capolavori e dei temi prediletti di un regista fuori dall’ordinario

Il laboratorio dei brividi

Alfred Hitchcock e il suo genio raccontati da Italo Moscati

A trent’anni dalla morte di Alfred Hitchcock (Londra, Leytonstone, 13 agosto 1899 - Los Angeles 29 aprile 1980), il regista, scrittore e sceneggiatore Italo Moscati ha pubblicato un avvincente racconto-biografia sul maestro inglese, «Hitchcock.
Il laboratorio dei brividi» (Rai Eri, 237 pagine, 14 euro). Non era facile scrivere ancora del grande cineasta, su cui esiste una montagna di monografie e saggi.
Attraverso rivelazioni poco note sugli anni della formazione di Hitch (come lo chiamano gli appassionati), l’analisi attenta dei suoi capolavori e dei temi prediletti, i retroscena di una carriera straordinaria iniziata nell’epoca del muto, Italo Moscati approfondisce con competenza e passione l’avventura creativa e umana di uno dei massimi geni della settima arte.
Del volume Moscati ha parlato con il Centro.

Scrivendo il suo libro su Alfred Hitchcock ha cercato di non farsi influenzare dai libri di Truffaut e Spoto? Qual è stata la difficoltà maggiore?
«Non ho cercato di non farmi influenzare, li ho spremuti come limoni e ne ho abusato ricavandone tutti i brividi del laboratorio in cui Hitch eccelle con i suoi film. Ho consultato un’infinità di testimoni ed esegeti, cercando però di andare oltre, in un’indagine che spero possa continuare. Hitch è una miniera e io un suo minatore».

Lei scrive che la madre di Hitchcock era cattolica e aveva educato il giovane Alfred in tal senso. In che modo questa formazione cattolica, con la relativa enfasi sul peccato, ha influenzato il cinema di Hitchcock?
«Hitch era un cattolico un po’ speciale, educato severamente dai Gesuiti, ordine in tradizionale competizione teologica con il circostante e dominante contesto anglicano. Il peccato e il suo complice, il perdono, sono inscindibili nella coscienza di un cattolico. Nelle mani di un genio artistico diventano la molla per una profonda attenzione sulla natura dell’uomo, e sul suo cammino in bilico fra bene e male, ombra e luce. Senza contare che Hitch sicuramente conosceva le parole di Chesterton, l’inventore del prete-investigatore padre Brown, secondo il quale se il bene è il bene, il male è comunque più interessante. Per un artista, of course».

Il terzo film di Hitchcock, il primo di successo, «The Lodger», del 1926, ispirato a Jack lo Squartatore, introduce dispositivi, segni, figure poi ricorrenti nel suo cinema: il suspence, la soggettiva, la bionda virginale. Quali gli altri film emblematici o di svolta nella cinematografia di Hitch?
«Il mio libro cerca di lumeggiare, appassionandosi, ma con atteggiamento analitico, tutto ciò. Il laboratorio dei brividi, come dice il sottotitolo del libro, va ribaltato. Vanno bene suspense, soggettiva, bionde virginali, coltellate, strangolamenti, veleni, forbiciate, ma la cosa essenziale da valutare è anche un’altra, meno conosciuta, liquidata come gossip. E cioè il suo gioco con la morte (fingere i propri funerali), la vena nei travestimenti (in abiti femminili), l’amore per il bere e il mangiare. Brividi, spiazzamenti, squisitezze senza le quali non si può capire il suo mirabile cinema».

Lei sottolinea molto la passione di Hitchcock per le bionde virginali, soprattutto Grace Kelly, Vera Miles, Tippi Hedren. Da cosa nasceva questa ossessione?
«Hitch fece l’amore per prima volta a 24 anni con la giovane fidanzata, una montatrice che lavorò a lungo con lui e che da lui ebbe una figlia. Non era un grande amatore. Suppliva con gli occhi e l’immaginazione. Era molto brutto e voleva donne molto belle, impossibili, a cui tendeva desideri e mani. Le curava, le corteggiava, le manipolava come Pigmalione che si innamorò della statua che aveva scolpito. Hitch fece fluire intorno alle bellissime attrici, di cui curava vestiti, trucchi, pettinature, il sangue dei delitti. Montagne di delitti su cui svettavano le sue bionde verginali, adorate e anche odiate proprio perché impossibili. Statue di ghiaccio nel mare del crimine».

Quando accenna agli amori gay di Charles Laughton, che Hitchcock diresse nella Taverna della Giamaica e Il caso Paradine, lei suggerisce che il regista fosse incuriosito dagli omosessuali. Da tale curiosità nasce un film come Nodo alla gola?
«Certo. Nel sesso tutto si tiene. Soprattutto per quanto riguarda Hitch e le sue curiosità a tutto campo di cui non voleva, o non poteva, darsi una risposta. A volte un artista, con la formazione e le caratteristiche di Hitch, trasforma le curiosità, i punti oscuri del carattere, in risorse straordinarie proprio sul piano dei racconti e della tensione in essi trasmessa. Una tensione tenuta alta, senza motivazioni corrive o banali. Una tensione delle tensioni di gran parte del Novecento. Anche in Io ti salverò, giallo psicoanalitico, Hitch non abusa di Freud, non lo squinterna come un oracolo».

Lei descrive la vita di Hitchcock come monotona e tranquilla, sempre con la quieta moglie Alma al fianco. Però insiste su certi fuori set e certe fotografie che lo ritraggono protagonista di scherzi perfidi. Forse Hitch proiettò la propria esistenza nei film? Compreso un certo sadismo latente e, allo stesso tempo, la voglia di scambiare il suo corpo brutto con quello di alter ego fascinosi come Cary Grant e James Stewart?
«Il cinema è una macchina di identificazioni e di sostituzioni tra immagini e parole. Lo sanno, per primi, i registi stessi, i migliori, che riescono tanto più a essere convincenti quanto più entrano ed escono dai loro personaggi, donne o uomini che siano. I registi sono dei prodigiosi Fregoli. Maschere, scheletri, pensieri, anima».

Il cinema di Hitchcock è stato citato, evocato saccheggiato. Secondo lei, quale regista ha saputo meglio avvicinarsi al maestro del brivido?
«Non esistono registi che si sono avvicinati al maestro. Ci sono stati registi che lo hanno apprezzato e imitato. Il più onesto è Dario Argento, spesso definito un novello Hitch. Argento non ci pensa proprio. Conosce il maestro, ha imparato tante cose da lui, ma lo evita di proposito o anche per inconsapevolezza. Il suo debito di riconoscenza, lo riconosce lui stesso, sta nel sapere a menadito ogni sequenza dei film del maestro. Ma ha poi provato ad andare per la propria strada, senza timore. Rischiando si impara la diversità, grande vera risorsa del grande cinema».

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