La campagna di Russia vista da un manipolo di soldati italiani, tormentati dal freddo e dalla fame

Il Sottotenente e i suoi uomini

Esce per Transeuropa il romanzo di Buffa «Ufficialmente dispersi»

Il romanzo «Ufficialmente dispersi» di Pier Vittorio Buffa, già direttore del “Centro”, esce in una nuova versione per Transeuropa (150 pagine, 13,90 euro). Racconta di un sottotenente dell’esercito italiano nel gennaio 1943 alle prese con la guerra in Russia. Per concessione dell’autore ne anticipiamo un brano.

Il Sottotenente e i suoi uomini avevano i moschetti, le pistole, le bombe a mano, una mitragliatrice pesante. E qualche patata.
Erano queste, più che i fucili, a dar loro la forza di essere ancora soldati. Le ultime gliele aveva bollite una donna. La sera, dopo averli accolti nella propria isba, aveva preparato una minestra di cavoli. La mattina, prima che ripartissero, aveva consegnato a ciascuno una patata appena tolta dalla pentola. Bollente, calda, poi tiepida. Ogni tanto, camminando, qualcuno infilava la mano nella tasca del pastrano reso rigido dal ghiaccio e toccava la palletta piena di vita. Gli sguardi si incrociavano, nessuno voleva essere il primo a prenderla e addentarla. E le patate restavano in quelle tasche a trasmettere un filo di calore sempre più flebile. Ma erano morbide: quando il calore finiva bastava una leggera pressione del polpastrello, a chi il freddo non aveva tolto la sensibilità, per sentire caldo e profumo di cibo.

Fu il Sottotenente a mangiare la patata per primo. Si erano fermati al riparo di un camion bruciato e lui l’aveva presa in mano perché desiderava che il plotone mangiasse. Mangiarono tutti, e fu una piccola festa che fece nascere brevi discorsi. Un soldato disse del carro armato. Prima di quella mattina non aveva mai avuto paura e l’ordine di ritirarsi era stato dato con tranquillità, come non ci fossero pericoli imminenti. Voltarono le spalle al fiume e si misero in marcia. Uno, due chilometri, forse tre, finché non videro i russi apparire davanti a loro: dietro la fanteria, davanti i carri. Il soldato se ne trovò di fronte uno, non ne aveva mai visti di così grandi, che mitragliava alla sua sinistra.

Per istinto, lui si gettò dalla parte opposta. Ma il carro smise di mitragliare, modificò la rotta e gli puntò contro: era a non più di venti metri. La mitraglia restò a brandeggiare senza un obiettivo preciso. Lui guardava i cingoli che avanzavano e decise di sdraiarsi mettendosi parallelo, con i piedi verso il carro. La grande macchina avanzava, e lui si spostò di lato per trovarsi esattamente sotto la sua pancia. Ebbe paura: di aver sbagliato le misure, che uno spuntone di ferro lo dilaniasse, che tutto saltasse per aria.
Invece il rumore diminuì e si trovò dietro al carro. Scattò in piedi e fece come gli avevano insegnato: bomba a mano pronta, una corsa, un salto come non pensava di saper fare, un armeggiare sul portello, la bomba che rotola dentro. Quando il carro si fermò lui era già tra la neve.

Un altro soldato disse dei pidocchi. Ne aveva bolliti tanti quando stavano sul fiume. Il pentolone, come tutti sapevano, era quello in cui si cucinava il rancio. Ci finivano dentro maglie, mutande, camicie. Ma lui, lo confessava adesso stringendo tra le mani la patata, un pidocchio lo aveva sempre salvato: quello che si era sistemato sotto l’ascella sinistra. Non gli dava fastidio perché gli procurava prurito solo una o due volte al giorno. Però cresceva e lui aveva imparato a riconoscerlo tra mille. Prima di addormentarsi lo andava a cercare ed era come avere compagnia.

Poi lo aveva perso di vista perché quel ripiegare e quel combattere contro soldati e partigiani che arrivavano da tutte le parti avevano interrotto il ritmo della spoliazione e delle bolliture. Adesso non sapeva se il suo pidocchio era ancora vivo o morto di freddo.
Sotto la sua ascella non metteva la mano da venti giorni. Un terzo disse della morte. Aveva vent’anni e non voleva trovarla in quel freddo. Prima di allora, non si era mai posto un problema del genere. Anche al momento di partire dall’Italia non aveva pensato alla morte. E nemmeno in linea, quando aveva visto cadere i primi compagni.

Era una cosa remota, che riguardava altri: non poteva raggiungerlo in breve tempo perché lui avrebbe saputo come evitarla. Ma lì, sperduti e senza guida, era diverso. Il freddo non distingueva età e sveltezza, astuzia e abilità, il freddo uccideva e basta. La morte adesso era vicina, in grado di farlo suo in ogni momento senza che lui potesse nulla per sfuggirle.
Per questo non aveva mangiato la patata per primo. La voleva conservare per il momento in cui non avrebbe avuto più forze.

Come se per allontanare la morte bastasse una patata.
Furono discorsi di pochi minuti, perché troppi ne avevano visti restare immobili nel freddo per qualche istante in più di riposo. Si rimisero in marcia, ripresero posto sul fianco della colonna che aveva, nel frattempo, continuato a scorrere.