In quelle gallerie vidi l’orrore in faccia

Silvio Di Luzio, l’abruzzese che scese nella miniera in fiamme

I l 17 ottobre del 2002, il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e i reali del Belgio hanno visitato la miniera-sacrario Bois du Cazier di Marcinelle, sobborgo della città belga di Charleroi. Era la prima volta che un Capo di Stato italiano visitava l’ex miniera. La visita di Ciampi era un atto di risarcimento verso le vittime e le famiglie spesso dimenticate.

Quel giorno Ciampi, proseguendo quel viaggio nella memoria che ha caratterizzato il suo settennato, volle incontrare, nella vecchia sala comando-motori della miniera Bois de Cazier, Silvio Di Luzio. Abruzzese di Torricella Peligna, Di Luzio in Belgio è un eroe nazionale. Nel 1958, il Re gli consegnò la più alta onorificenza civile. Il 17 ottobre 2002 Silvio Di Luzio, pochi minuti prima di incontrare Ciampi ci rilasciò l’intervista che oggi ripubblichiamo. Silvio Di Luzio è scomparso il 26 giugno del 2005 in Belgio, per una grave crisi polmonare. Ha voluto essere cremato. MACINELLE. Il re Baldovino, nel 1956, pochi mesi dopo la tragedia, lo invitò nel suo palazzo per consegnargli la medaglia di “Cavaliere di Leopoldo II”.

Silvio Di Luzio, classe 1926 di Torricella Peligna, è l’unico reduce della squadra di salvataggio che si calò nella miniera in fiamme. Riuscì a salvare tre minatori. Altri tre li portarono in salvo i suoi colleghi dell’altra squadra. Poi le fiamme avvolsero anche il secondo montacarichi della miniera di Bois du Cazier, a Marcinelle, un sobborgo della città mineraria di Charleroi. E da quel buco scavato fino a 1035 metri, nelle viscere della terra, non uscirono che cadaveri. Il re dei belgi rimase sorpreso dal coraggio di questo abruzzese. E come riportano le cronache dei giornali del tempo, durante il pranzo reale, Baldovino gli chiese in italiano: «Non hai avuto paura?». E lui: «Sì, all’inizio sì, ma poi non ci ho pensato più, dovevamo salvare i nostri amici». «Bon courage», esclamò il sovrano salutando quel partigiano della Brigata Maiella, finito a lavorare in una miniera fianco a fianco coi prigionieri tedeschi, quegli ex soldati del Terzo reich che fino a pochi mesi prima aveva combattuto. Silvio Di Luzio, si è incontrato con il presidente della repubblica, Carlo Azeglio Ciampi proprio nella miniera museo. Nella sala macchine dove si comandavano i motori dei montacarichi della «mina», come la chiamano qui. Di Luzio, che in questi anni ha avuto anche dalla Repubblica un riconoscimento, è commendatore. La proposta di dare un riconoscimento al partigiano l’ha avanzata il ministro Mirko Tremaglia. Come c’è finito un partigiano nelle miniere del Belgio? «Come tanti. Per fame. Per disperazione. Per cercare una speranza di riscatto. Per potersi fare e mantenere una famiglia. Perché io nel 1943 quando sono entrato nella Brigata Maiella avevo 17 anni. Mi ricordo ancora come ieri la nostra prima incursione a Pizzoferrato. Poi ho fatto tutta la guerra di liberazione. Sono entrato a Bologna coi partigiani del comandante Troilo. In quel periodo noi eravamo trattati come i soldati anglo-americani. Certo c’era la guerra.

Ma vitto e sigarette non mancavano. Una volta tornato in paese nel 1945, invece, non avevo più nulla. C’era pure chi ci guardava male. Non c’era uno straccio di lavoro. La situazione era davvero triste. Al punto che dovevo chiedere cinque lire a mia madre per comprare le sigarette. Era davvero umiliante. Quindi, aspettavo la prima occasione per fuggire dalla miseria». E come seppe che in Belgio cercavano uomini? «Da un manifesto che misero in paese. Lì si diceva che chi veniva in Belgio avrebbe trovato un lavoro e quasi sarebbe diventato ricco. Io avevo 20 anni. Mi sembrava un sogno». E cosa fece una volta letto il manifesto? «Andai in Comune e mi iscrissi nella lista di chi voleva andare a lavorare in Belgio. A Torricella in 38 fecero come me. Tutti giovanissimi. Mo’ sono tutti morti, chi nelle altre miniere e chi per gli acciacchi di quel lavoro da bestie che abbiamo fatto allora. Io ringrazio la madonna. Sono vivo. Ho una famiglia. Figli sistemati. La femmina si chiama Anna Maria. Il maschio Giuseppe è un ingegnere. Lavora in Venezuela come rappresentate di macchinari di una grande fabbrica Belga. Io e mia moglie, si chiama Ida D’Amico, è di Torricella pure lei, viviamo qui con la pensione belga e una miseria che mi arriva dall’Italia». Torniamo a quei giorni. A quel 1946. Come partì da Torricella? «In paese ci vennero a prendere con un camion. Salimmo sul ribaltabile in trent’otto. Il treno alla stazione di Chieti. Le visite mediche a Milano. Poi ci misero su dei vagoni piombati, per via del fatto che gli svizzeri volevano la garanzia che, attraversando il loro territorio, noi non saltassimo giù dal treno. Infine, l’arrivo qui a Marcinelle in bus e subito la miniera».

Come vi accolsero i belgi, allora? «Male. Anzi malissimo. Ci sputavano in faccia. Ci accusavano di essere fascisti. Ci accumunavano ai tedeschi, che durante la guerra qui ne hanno combinate parecchie. Per anni non siamo potuti entrare nei bar. Era vietato. Fino a quando un italiano non ne ha aperto uno. Dormivamo in un ex lager tedesco. Delle baracche ricoperte di lastre ondulate. Dove l’inverno, che qui è lungo, passava di tutto. Nu fredd!». Come si lavorava in miniera, cosa avevate? «Una pala. Una piccozza. Un elmetto, tipo quello degli inglesi, con un lume. Non c’era nessuna maschera. E avevamo qualcosa addosso. La temperatura nei cunicoli era di 40-60 gradi. Si sudava come non si può neanche immaginare. Era faticoso pure respirare. Si scavavano cunicoli alti poco più di mezzo metro. Poi li puntellavano mano a mano che si avanzava. C’erano poi le gallerie di collegamento, più grandi, dove passavano i carrelli per trasportare il materiale, Carrelli che erano trainati da cavalli bendati». Il giorno della tragedia lei dove era? «Ero a casa. Mi vennero a prendere d’urgenza con un’ambulanza. Io ero entrato nel servizio di salvataggio. La direzione della miniera per mesi ci aveva fatto addestrare. Ricordo che ci mandavano di corsa, con una enorme maschera, su e giù per i montagnozzi di materiale di scarto della miniera. Quelle che ora sembrano delle colline, qui tutt’intorno a Charleroi. Erano le nove quando arrivai alla miniera. L’incidente era scoppiato da pochi minuti». Cosa vide subito? «Un fumo denso e nero che usciva dalla bocca della miniera. Copriva tutto». Cosa fece? «Coi miei compagni ci mettemmo casco e maschera per l’ossigeno, ce l’avevano solo quelli del soccorso, prendemmo delle torce elettriche e scendemmo giù col montacarichi ancora in funzione. Fino alle undici e mezza riuscimmo a scendere e risalire. Poi l’inferno arrivò anche lì».

L’inferno dice, ma cosa si presentò davanti agli occhi di Silvio Di Luzio in quelle ore, in quei giorni? «Una cosa che neanche in guerra avevo visto così orribile, la morte. Quando scendemmo le prime volta fummo fortunati, riuscimmo a salvare tre persone. Ma là sotto nelle gallerie il fumo era così denso che non si vedeva a un palmo. Risalimmo e cambiammo le torce. Ci diedero quelle tipo anti-nebbia. Ma la situazione non è che migliorò poi molto». Per due ore e mezza siete andati avanti così poi cosa è successo? «La direzione della miniera ci aveva detto che dovevamo cercare solo i vivi e di lasciar perdere i morti, per ora. Ma il fuoco avanzava. Risalimmo. Alle 11,30 anche il secondo montacarichi cessò di funzionare». Quante altre volte è sceso sotto la miniera? «E chi lo sa. Sono rimasto per 15 giorni lì. Senza mai tornare a casa. Mia moglie e i miei figli venivano al cancello della miniera per vedere come stavo. I miei bambini mi portavano della frutta da mangiare. Per due mesi siamo scesi ancora giù io e i miei compagni del soccorso.

Dopo lo scoppio dell’incendio i pompieri continuavano a buttare acqua con due obiettivi, fermare il fuoco e con la speranza di mandare acqua a quelli che stavano sotto il livello 903 metri, dove c’era l’incendio. La miniera aveva 11 livelli. A partire da quota 200 fino a quota 1035. La speranza era di salvare almeno quelli più lontani dalle fiamme. Quelli di quota 1035 metri. Invece, loro hanno fatto una morte ancora più orribile. Le fiamme nella parte alta hanno consumato l’aria. Poi il gas, il grisù ha fatto il resto». C’è un’immagine tra le tante di quei giorni che non potrà dimenticare? «Una di speranza e delusione insieme.

L’ho avuta quando abbiamo trovato su pezzo di trave una scritta, “andiamo in questa direzione”. A quel punto erano già passati alcuni giorni dall’incendio, e quella scritta aveva riacceso le nostre speranze di trovarne qualcuno vivo. Invece, li trovammo tutti intatti, ma asfissiati. E poi due scene che non potrò mai dimenticare. L’acqua aveva invaso molte gallerie. I cadaveri dei miei compagni, dei miei amici galleggiavano. Si erano gonfiati. Irriconoscibili. Noi li dovevamo mettere dentro dei sacchi di yuta per riportarli fuori. A un tratto ne sposto uno che esplode. E mi sporcai tutta la faccia. Io lì per lì mi sono pulito con la manica della mia tuta. Poi la sera mentre ero sulla branda mi sono accorto che mi prudeva il viso. Mi sono guardato allo specchio. La guancia si era gonfiata. Mi hanno ricoverato d’urgenza all’ospedale. Mi hanno fatto delle punture potentissime. Poche ore ancora e sarei morto. Qualche giorno dopo sono tornato alla miniera».

L’altro ricordo? «Troviamo una porta di legno frangi-fuoco chiusa. Questo ci ha ridato speranza. Le fiamme non l’avevano scalfita. Riusciamo ad aprirla e dentro troviamo un minatore, ma che dico minatore era un bambino di quindici anni che si era rifugiato tra le braccia di un suo collega adulto prima di morire con lui. In quel momento quel “minatore” è tornato quello che era davvero “nu’ citele”. Per anni quante volte ho sognato quella scena. Quante volte».