L'Abruzzo e il patto per il non lavoro

di Sergio Baraldi

I fatti degli ultimi giorni sono questi. Abbiamo un bilancio regionale approvato, ma che non si trova; c'è ma non sembra sia stato ancora pubblicato dopo due settimane. Comunque sia non l'abbiamo in mano, però il Pdl si è già pentito, e vorrebbe cambiarlo. Cambiare quello che c'è, ma anche che non c'è. Ditemi voi, amici lettori, se avete l'impressione che sia una cosa seria. Abbiamo un Patto per il lavoro che era una delle poche intuizioni con le quali l'Abruzzo aveva individuato, in anticipo, il metodo giusto per affrontare la modernizzazione. Poi è venuta la crisi che ci ha dato ragione e ha reso ancora più necessario il Patto. Ma, proprio quando il Patto più servirebbe, l'Abruzzo si sta inventando una cosa nuova: il Patto per il non-lavoro con il quale si cerca di rendere più oneroso e difficile fare qui l'imprenditore.

Ditemi, amici lettori, se vi sembra una cosa fatta con intelligenza. Abbiamo un commissario per il sisma che gestisce la struttura dell'emergenza, il quale apprende dal nostro giornale che la sua struttura compie spese fuori controllo. Il commissario chiede a Monti di avere più uomini, più mezzi per controllare quello che non ha controllato finora. Se no si dimette. Le risposte arrivate finora sono state: dimettiti. In realtà, il commissario aveva capito che probabilmente lo sostituiscono e gioca d'anticipo: non mi sostituite voi, me ne vado io. Ditemi voi, amici lettori, se vi sembra che L'Aquila e gli abruzzesi si meritino questo teatrino. Che cosa raccontano questi fatti? Che nella nostra regione si materializza una crisi di governabilità. I teorici ci spiegano che la governabilità riassume quei requisiti istituzionali, politici, economici che consentono un'efficace azione di governo.

Il filosofo francese Michael Foucault, che ha studiato a fondo i meccanismi del potere, aveva parlato per primo di “govermentalità”. Questa capacità di rispondere ai bisogni e alle domande della società e di guidarla, in Abruzzo sta mostrando la corda proprio nel momento in cui ci sarebbe bisogno di una buona politica. Caduto il governo Berlusconi che aggiustava le cose più sulla carta che nei fatti reali (avete mai saputo che fine hanno fatto davvero i fondi Fas?) e uscito di scena l’amico Gianni Letta che ha sostenuto come poteva l’Abruzzo, la Regione è diventata evanescente. L’intelligente on. Piccone ha il suo da fare a sollecitare un cambio di passo, l’urgenza delle riforme: sembra parlare a un’istituzione che c’è ma non c’è, come il suo bilancio. La crisi sta affiorando con evidenza anche in altre amministrazioni di centrodestra, come quella di Pescara il cui declino è reso manifesto persino dal disagio della sua maggioranza.

Non è un caso che di fronte allo stallo della governabilità, l’istinto di una parte della maggioranza di centrodestra, e di Chiodi, sia di rifugiarsi nella politica clientelare e elettorale. Questo piano inclinato in cui troppe istituzioni pubbliche sono finite, a cominciare dalle Asl, dovrebbe preoccupare tutti. Il punto su cui vorrei richiamare l’attenzione dei lettori, infatti, è il seguente: la gravità della crisi è tale che gli abruzzesi non possono permettersi di dividersi. Ci sarebbe bisogno di una capacità di confronto e dialogo che superi le posizioni di ciascuno per garantire coesione sociale nel pieno di una “tempesta perfetta”. Avremmo bisogno di una “religione civile”, di una politica che riscopra la responsabilità, la moralità, il coraggio verso i suoi cittadini, non di una politica politicante degli annunci o delle cifre girate come conviene.

Dovrebbe essere chiara la posta in gioco: se siamo investiti dalla “tempesta perfetta”, tutto l’equipaggio della nave dovrebbe lavorare unito. Ma il primo a dare l’esempio dovrebbe essere il comandante della nave, il quale però sembra pensare a salvare se stesso. Dovrebbe essere ormai chiaro che il “sistema Abruzzo” dovrebbe giocare una partita nuova che possiamo definire il campionato Monti: se il governo dei Professori riuscirà a rilanciare la crescita, la nostra regione dovrà trovare il modo di connettersi con il movimento dei migliori, di entrare nel gruppo di territori che sapranno beneficiare meglio delle occasioni che potrebbero aprirsi per l’Italia. Non tutte le regioni, infatti, reagiranno nello stesso modo, con la stessa velocità, con la medesima efficienza. Ci saranno vincenti e perdenti. Noi da che parte saremo? Hanno, quindi, ragione le associazioni di categoria di piccole imprese che rappresentano la grande maggioranza delle nostre imprese, che si sono autosospese dal Patto del lavoro, denunciando l’inerzia della Regione e avvisando che non c’è più tempo da perdere. Hanno ragione, perché i tavoli sono utili se discutono progetti, se hanno risorse da impiegare, se coordinano azioni condivise. Invece, scopriamo che la Regione ha varato una serie di decisioni che aggravano o complicano con altra burocrazia l’onere delle imprese anche rispetto ad altre regioni. Lo ha raccontato ieri il nostro Andrea Mori in un articolo ben documentato. Noi non variamo incentivi, ma disincentivi. Non agevoliamo le imprese in un momento di crisi, le appesantiamo. Non riduciamo i costi, li aumentiamo. Per di più non diventiamo attrattivi per imprese di altri territori che potrebbero investire qui.

Abbiamo ideato il Patto per il lavoro, ora inventiamo il Patto per il non-lavoro. Vedremo se Confindustria, che ha già avanzato alcune critiche, saprà trovare la voce per difendere i suoi interessi oltre a quelli dell’intero territorio. Vedremo se Confindustria saprà passare dalla vecchia logica della mediazione a una dialettica nuova in cui contano i progetti, i fatti che seguono alle parole, le riforme che si fanno non quelle che si disfano. Quanto ai sindacati sarebbe interessante capire come mai attorno all’innovativa posizione della Cgil sui trasporti sia stato steso un cordone di silenzio. Anche questa è una verità che dobbiamo dirci: la crisi di governabilità trova nella politica il suo epicentro, ma la società deve assumersi le sue responsabilità. Le nuove sfide non si possono affrontare con la testa e le illusioni di ieri.

Troppi in Abruzzo pensano che il vecchio modo di aggiustare le cose, che gli stili e il tenore di vita, l’abitudine di reclamare risorse da dividersi, possa sopravvivere nonostante la “tempesta perfetta” o ritornare quando sarà passata. Purtroppo, così come siamo, difficilmente potremo ancora essere. Le risorse pubbliche diventano più scarse. L’Abruzzo dovrà voltare pagina, imparare a fare da solo, inaugurare una nuova cultura, una diversa logica, ricorrere a metodi differenti, inventare soluzioni inedite. Le trasformazioni ci avvisano che la prima grande riforma è imparare a ri-pensarci. Occorrerà riformare le istituzioni regionali, ormai rivelatesi più un vincolo dispendioso per la crescita che una risorsa, e mettere la competitività (quella vera) al centro del sistema. Se alla fine del processo che viviamo, l’Abruzzo si ritroverà assieme al Sud e alle regioni più deboli del Paese, un intero ciclo storico rischierà di andare perduto. Avremmo bisogno di una nuova idea dell’Abruzzo e di una nuova idea di governo.

All’incontro organizzato dal vescovo di Chieti, Bruno Forte, ho avuto modo di sostenere che se non cambiamo, non manterremo la stabilità; al contrario, solo se cambiamo manteniamo la stabilità. E’ il cambiamento la chiave del futuro e dello sviluppo. Ma dovremo essere disponibili tutti: sindacati, imprese, cittadini. Alla politica spetta la responsabilità di orientare le scelte collettive. La credibilità deve cominciare da chi governa. L’esempio deve partire dall’alto. I professori sanno “che cosa” fare. Il limpido articolo del professore Mauro che pubblichiamo oggi sul Patto per il Lavoro e la sua lezione sul dinamismo, ne è una prova. L’articolo vale, da solo, un programma di governo. Se si leggono gli interventi del prof. Sarra se ne traggono ulteriori spunti di riflessione, come la capacità di cucire un modello di sviluppo che guardi in avanti sulla base della struttura del nostro tessuto produttivo. Abbiamo anche noi i nostri professori, se solo volessimo ascoltarli. Il problema non sta nel “che cosa”, il problema sta nel “come”. Qui entra in scena la politica. E, in effetti, sul palcoscenico ci sale, ma per recitare un copione di quart’ordine, non per dirigere l’orchestra. Sta ora alla società fare sentire la propria voce, sostenere i propri diritti, dare indicazioni. Non cadiamo in un’altra illusione: se noi non ci muoviamo, le cose cambieranno lo stesso. Cambieranno senza di noi. Persino contro di noi.

Sarà il mercato a fare la selezione, a dettare i mutamenti; avremo il governo dei bilanci, quelli veri non quelli della nostra regione. La crisi globale è retta da una legge: se un territorio non sa governarsi, sarà governato dalla mano invisibile. Che non si cura delle nostre perdite e dei feriti sul campo. La crisi di governabilità consegna il nostro destino in mani che non decidiamo noi.

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