L'Abruzzo e la nuova fase

di Sergio Baraldi


Pochi giorni fa, i comitati sono tornati a sfilare per protesta a L'Aquila. La manifestazione ha raccolto il disagio diffuso che si respira nel capoluogo, ma non ha mobilitato molta gente. I comitati hanno dato voce a un malessere che moltissimi vivono ogni giorno, ma l'impressione è che i cittadini abbiano rivelato anche una stanchezza verso la protesta. La gente crede sempre meno alle parole e, come hanno detto le categorie economiche, all'utilità delle liti. Cerca vie d'uscita. Chiede concretezza. Desidera verità. Come ha scritto efficacemente il nostro Giustino Parisse, più che indignati oggi a L'Aquila sono rassegnati. E nel resto dell'Abruzzo? Intervistato dal nostro giornale per i suoi novant'anni, Remo Gaspari ha criticato la classe politica attuale e, nello stesso tempo, ha auspicato che "la politica faccia ripartire l'Abruzzo". Sono, forse, le due immagini delle contraddizioni attuali della Regione. Svanito il tempo della retorica dell'unità, dei valori condivisi dell'Abruzzo "forte e gentile", chiuso il palcoscenico del terremoto, gli abruzzesi sembrano essersi accorti che devono fare i conti, quasi da soli, con l'assedio delle macerie. E le nostre sono tante: il dopo terremoto, gli effetti pesanti della crisi; il dissesto dei conti pubblici centrato sul deficit sanitario, che pesa sul futuro. Qualche giorno fa ho conosciuto il presidente Chiodi e mi ha colpito una affermazione: "Vorrei consegnare ai nostri figli meno debiti di quelli che ho ereditato".

Forse c'è saggezza nell'atteggiamento dei cittadini de L'Aquila: capiscono che la protesta ha le sue ragioni, ma oggi il problema non è protestare, è tentare di trovare soluzioni percorribili. Ma l'Abruzzo oggi è in grado di individuare e incamminarsi lungo questa via?

Nonostante il quadro pesante, sarei tentato di rispondere di sì. Qualche segnale si avverte: l'economia non peggiora, anche se non crea posti di lavoro, ma è già una notizia; nel 2011 potremmo avvicinarci al pareggio dei conti nella sanità; si avverte nella società il desiderio di aprire una fase nuova. Di questo, a mio giudizio, avrebbe bisogno la Regione: di una fase nuova. Che può essere rappresentata dalla fine di tre grandi questioni: la fine dell'emergenza come sistema di governo e il ritorno alla normalità istituzionale; la fine della retorica dell'unità per lasciare spazio, invece, a una cooperazione tra maggioranza e opposizione e tra le diverse componenti della società in nome di obiettivi condivisi; la fine dell'emergenza, almeno quella più acuta, dei conti pubblici.

Non sono d'accordo con Gaspari. A differenza del passato, non credo che la politica da sola possa salvare l'Abruzzo. Gli abruzzesi o si salvano insieme o rischiano di non salvarsi. Ma è vero che la politica, maggioranza e opposizione, ha la responsabilità di orientare la società, di dare l'esempio, di indicare un modello possibile. Non va abolita la competizione tra centrodestra e centrosinistra, e non vanno certo messe a tacere critiche o divergenze. Ma va derubricata la visione frammentata degli interessi e dei valori. Va lasciato cadere il gioco furbo di pensare di trarre vantaggio dalle debolezze degli avversari, di fare calcoli elettorali sulle catastrofi dell'Abruzzo.

E' questo dialogo, che non nega differenze e contrasti, che dovrebbe prendere il posto del conflitto per i propri interessi particolari. Tutti sono chiamati a rinunciare a qualcosa, se si vuole aprire una fase nuova. Il centrodestra deve riflettere seriamente sull'inefficienza del modello del commissariamento come metodo di governo. Un metodo che esautora le comunità e annulla i poteri istituzionali.

Il presidente Chiodi può compiere un passo decisivo: avviare la fase di normalizzazione istituzionale, compresa quella che lo riguarda personalmente di commissario per il terremoto. A parte il potere di ordinanza, in realtà questa figura ha sempre meno significato nella gestione del dopo terremoto e rischia di caricare lo stesso Chiodi di aspettative alle quali, con tutta la sua buona volontà, potrebbe non essere in grado di rispondere. Forse il commissariamento può essere utile, per un tempo limitato, per la sanità che ci ha trasformato in Regione canaglia. Il passo che il centrodestra abruzzese dovrebbe compiere è restituire alle istituzioni, compreso il Consiglio regionale, il loro ruolo.

Occorre ripristinare la dialettica democratica ordinaria. Chiodi ha sufficienti poteri per governare. Le procedure eccezionali, alla fine, danneggiano chi le usa, perché i risultati non arrivano. E i commissari finiscono per essere accusati di non risolvere nulla. Fra l'altro, si trasmetterebbe un messaggio forte alla società: il ritorno alla normalità significa che qualcosa si muove, che l'Abruzzo può farcela con le "sue" istituzioni. In una democrazia le maggiori responsabilità sono in carico a chi governa. Tocca a Chiodi e al centrodestra, se vogliono, aprire questa fase nuova.

Oggi i commissari non servono, perché la società è cambiata: la gente non vuole delegare il proprio futuro, vuole partecipare alle scelte, vuole contare ogni giorno nelle discussioni pubbliche, non solo quando si vota. Il commissario è la negazione di questa domanda di diritti da esercitare. Al contrario, può servire un confronto ampio sugli obiettivi e la capacità di lavorare insieme per raggiungerli. In realtà, serve un gioco di squadra.

Una nuova fase porrebbe anche all'opposizione la necessità di scegliere la sua identità: vuole limitarsi a cavalcare la protesta, vuole approfittare delle difficoltà degli avversari o vuole mettersi al servizio dei cittadini e dell'interesse generale? Vuole parlare a tutta la società o solo ai suoi? Occorre un armistizio, come chiedono le categorie a L'Aquila: non possiamo ogni giorno contare le polemiche. Come avviare la ricostruzione? Quali priorità darsi?

Non abbiamo bisogno di un presidente che deve trattare le nostre condizioni con le altre Regioni, e con il governo, logorato da tattiche che mirano alla delegittimazione. Non si possono indebolire le istituzioni, che sono un bene dei cittadini. Ma le istituzioni non possono essere rette da una visione parziale: una maggioranza che s'illude di essere autosufficiente, mentre a Roma il governo declina; e un presidente incerto se assumere il ruolo di "presidente di tutti".

Le cose possono cambiare, ma cambiano se ciascuno fa la sua parte. Anche nella società civile: le categorie economiche fanno bene a incalzare il governo regionale quando si tratta di mettere in ordine i conti o creare le condizioni per la competitività del sistema, ma debbono anche mettere in secondo piano i propri interessi particolari. Non si può chiedere solo alla politica di salvare l'Abruzzo. I cittadini devono saperlo: la politica non può farlo, non ne ha né i mezzi né la possibilità. I sindaci devono accettare l'idea che la sanità non potrà essere come è stata finora, che occorrerà fare tagli e accettare rinunce. In altri tempi, il deficit di una struttura sanitaria locale finiva nel deficit nazionale. Oggi finisce nel deficit regionale, e la Regione deve rispettare i parametri fissati dall'Europa. E l'Europa interviene se non rispettiamo le regole.

La Grande Riforma che attende l'Abruzzo sta qui: nella capacità di utilizzare la crisi che ci ha investito (terremoto, economia, deficit) non solo per un'opera di riordino. Il progetto dovrebbe consistere nell'utilizzare la crisi per la ristrutturazione del sistema Abruzzo. Per riposizionarlo nella sfida internazionale. Per tornare a crescere e creare posti di lavoro e benessere. La politica può guidare questa strategia, ma non può, come una volta, risolvere da sola ogni cosa. Occorrono il coraggio e l'impegno della società.

Questo è il passaggio che ci attende: accettare i limiti del nostro agire in nome del bene comune.

Riusciremo a mettere in atto un comportamento virtuoso? Si possono infondere stabilità e fiducia nei cittadini pur dicendo amare verità? L'Abruzzo sarà costretto a cambiare anche se non lo vuole.

Nel mondo si sono messe in movimento trasformazioni che non si possono controllare. Avete visto Berlusconi? Credeva di poter recuperare consenso con una manovra che scaricava i costi sul futuro, credeva di poter imporre il primato della "sua" politica su quello della modernità. I mercati hanno fatto cadere i prezzi dei titoli di Stato e la Borsa. Ha dovuto precipitosamente incontrare Tremonti e assicurare che gli equilibri finanziari saranno rispettati. Solo un premier senza lucidità, prigioniero delle sue paure, poteva pensare di ignorare la realtà.

L'Abruzzo non commetta lo stesso errore. Se la classe dirigente vorrà essere ricordata come quella della ricostruzione, si dimostri all'altezza della sfida. Come dice Spyderman: a grande potere, grande responsabilità.

© RIPRODUZIONE RISERVATA