L'ABRUZZO E LA SFIDA DEL FUTURO

di Sergio Baraldi

Volete sapere chi ha detto la cosa più importante per l'Abruzzo questa settimana? L'ha detta Raffaele Trivilino, direttore della società Innovazione Automotive e Metalmeccanica della Val di Sangro. "Noi lavoriamo per il futuro, perché è diventato molto facile costruire strade o persino un porto. Cose che sanno fare tutti". Trivilino ha raccontato così al nostro giornalista Fabio Casmirro il senso del suo lavoro. In poche parole, Trivilino ha sintetizzato le cose fondamentali per chi è impegnato nella sfida del presente. E si muove per non finire tra i perdenti della globalizzazione.

Quali sono questi concetti chiave? Innanzi tutto, il "noi" che descrive un impegno collettivo, dai dirigenti agli operai. Vale a dire: la squadra. Poi il futuro, cioè la consapevolezza che la posta in gioco non è l'esistente, l'oggi o il passato, ma che occorre avere la testa rivolta a come sarà il mondo nel 2020, una data che ricorre spesso nei discorsi dei protagonisti di quella società. Il direttore indica la priorità decisiva: non le cose ormai facili da fare, la frontiera non è più quella. Il terreno reale della competizione globale è diventato la conoscenza che ci differenzia, la tecnologia che ci mette in rete, l'innovazione dei prodotti, dei processi, dei servizi, cioè le cose che "non" tutti sanno fare. Aggiungerei: il modo in cui racconta un'eccellenza della nostra regione rappresenta un'altra operazione positiva.

Dietro di lui compare il territorio come "luogo", non solo come spazio economico o politico per quanto sia anche questo; lo fa emergere come un sistema di significati, di saperi, di relazioni. Disegna una dimensione dell'identità. Immaginate di andare da un politico a porre la stessa domanda. Avrebbe risposto così? Penso di no. Molti politici sono sinceramente impegnati per il territorio, ma faticano a compiere il salto culturale che li spinga ad avere la testa rivolta al futuro invece che al passato. Ma l'Abruzzo ha bisogno di futuro.
Pochi giorni fa abbiamo pubblicato la fotografia della disoccupazione in regione: sono 53 mila i giovani sotto i 35 anni che cercano lavoro. Ritenete che potremo assicurare un domani ai nostri figli se il futuro non diventa l'orizzonte nel quale l'Abruzzo ripensa se stesso?
C'è una bellissima immagine del filosofo tedesco Walter Benjamin ispirato da un quadro di Klee. In essa Benjamin immagina l'Angelo della storia con lo sguardo fisso al passato, ma una tempesta dal cielo gli prende le ali e lo spinge inesorabilmente verso il futuro al quale però volge le spalle. "Ciò che chiamiamo progresso, scrive Benjamin, è questa tempesta". E' difficile trovare un affresco più potente e visionario per trasmettere le trasformazioni profonde che stanno obbligando il mondo a cambiare.

La nostra regione, con le sue debolezze e i suoi drammi, ma anche con i suoi punti di forza, è presa anch'essa da questo vento. La questione di fondo è la capacità della società d'immaginare e realizzare l'adattamento al mutamento. La questione di fondo è la risposta. La verità è che, forse, non dovremmo ragionare più solo in termini di sviluppo regionale, ma di regione d'eccellenza. La differenza è fondamentale. Consiste nell'ambizione. Investire tutte le energie possibili per fare dell'Abruzzo, nonostante i gravi pesi che abbiamo sulle spalle, una regione d'eccellenza richiede il coinvolgimento di politica, impresa, intelligenza, società civile. Si tratta di porre al centro l'innovazione, partendo dai centri di eccellenza come l'Automotive che ci fornisce anche un modello che funziona con l'integrazione tra pubblico e privato. Il cambio di mentalità sarebbe profondo.

L'eccellenza come obiettivo e la cooperazione tra pubblico e privato impongono uno spirito riformatore che non risparmia nessuno. Occorre non solo modificare il sistema di ricerca e d'innovazione, in primo luogo le università, ma richiede la revisione del modello di regione al quale fare riferimento, compreso il governo e la sua struttura amministrativa. Occorre ricavare il massimo beneficio in termini di innovazione e ricerca per la società. Nello stesso tempo, si deve creare un ambiente favorevole per far nascere e crescere imprese innovative.
Questo cambiamento non sfida solo la politica. Sfida l'impresa che deve puntare a costruire un sistema dell'innovazione in settori diversi e ad emanciparsi dal rapporto a volte subalterno con la politica per fare in modo che lo scambio di conoscenza e nuove tecnologie si diffonda dalle aziende grandi e medie alle piccole. Sfida l'università che deve porsi al centro della tensione all'eccellenza: non a caso l'Automotive ha coinvolto l'università dell'Aquila e quella di Chieti e Pescara. Ma l'università, a sua volta, deve adattarsi al mutamento: deve innovare, arricchirsi di competenze ed esperienze gestionali, deve essere a tutti gli effetti il luogo di produzione della qualità e del merito.

I nostri atenei non possono eludere la responsabilità verso la loro società. Dovrebbero uscire dai confini del proprio rettorato, talvolta liberarsi dal vecchio modo di fare università o da certi istinti corporativi interni per accettare di diventare più grandi, di delineare un sistema regionale dell'università che concentri le risorse, specializzi gli atenei, offra al territorio e al mercato del centro sud una offerta didattica e di ricerca in grado di competere con il meglio del Paese.
L'università non può limitarsi a essere un centro di formazione, ma deve assumere il ruolo "imprenditoriale" di marketing del sapere e di creazione d'impresa moderna. Sfida la politica che resta decisiva per favorire la crescita di una società aperta all'innovazione, che superi la frammentazione istituzionale e sociale. Ma che deve essere non solo governo ma anch'essa "impresa" sia pure sociale. Occorre, per esempio, un approccio nuovo che canalizzi gli sforzi verso quelle aree e quei soggetti che sono in grado di garantire l'efficienza dei risultati. Se questo è vero, credo che la maggioranza di centrodestra e il presidente Chiodi abbiano lasciato cadere una possibilità importante opponendosi alla proposta di rimodulare i finanziamenti Fas, che speriamo di salvare dai tagli.

I Fas sono stati distribuiti secondo la logica poco produttiva di dare qualcosa a tutti, il "gasparismo" meno buono. Chiodi lo sa bene, anche se difende il piano. Tuttavia, non sarebbe sbagliato concentrare le risorse sui capitoli più importanti, inviando alla società un segnale forte sulle priorità per il futuro. Agire nell'incertezza è un compito improbo, ma un modello possibile comincia a delinearsi. Occorrono da parte del governo e della società maggiore flessibilità, maggiore qualità connessa al merito, maggiore dinamicità. Troppe volte la Regione dà l'impressione di presentare progetti statici, «fotocopie di quelli del passato» ha detto il vicepresidente di Confindustria Primavera, che ripetono modi di pensare di ieri sconnessi dai nuovi bisogni e nuove domande che si fanno avanti. E' più importante fare una strada o investire più risorse nella banda larga e mettere in rete più territorio possibile? Ecco un obiettivo che guarda al futuro: costruire un network che in prospettiva consenta non solo di ridurre di costi, ma di connettere saperi, esperienze, servizi.

Ha senso investire in progetti infrastrutturali non sempre prioritari piuttosto che in progetti d'innovazione industriale? E' corretto non investire in centri di servizi in grado di offrire un accesso migliore alle nuove tecnologie dell'informazione? Ha senso non puntare sul turismo come volano per una crescita più rapida, che implica qualità ambientale, ricettiva, organizzativa? Bastano questi temi per capire come potrebbe mutare completamente il processo d'identificazione delle aree d'intervento, la definizione degli obiettivi di programmazione, i soggetti da coinvolgere. E, con essi, la "governance" pubblica. Quei Fas polverizzati risolvono meno di quanto potrebbero. Il presidente Chiodi lo sa: sono un'aspirina per un malato che ha bisogno di antibiotici. La Grande Riforma qui dovrebbe riguardare la struttura della Regione. Possibile che i direttori generali si scelgano solo tra i direttori interni? Cambi la legge, presidente: apra al merito e alla concorrenza. Chi pagherà i danni se, com'è possibile, perderemo una parte importante, qualcuno teme oltre 60 milioni (120 miliardi di vecchie lire) di fondi europei Fesr? E sapete perché non funzionano al contrario dei fondi Fse? Perché c'è una pletora di direttori non coordinati fra loro. Non solo, Fse e Fesr seguono procedure per bando separate: la mano destra non sa quello che fa la sinistra. E' qui che manca la politica: non sembra potere riorientare l'impiego delle risorse pubbliche a favore delle politiche della competitività, l'unico modo per rilanciare la crescita.

Solo se teniamo con coraggio la testa rivolta verso il mondo che verrà, potremo influire sul nostro destino. Insegnava il filosofo Kierkegaard: l'esistenza si comprende all'indietro, ma si vive in avanti.

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