L'Abruzzo e un leader normale

di Sergio Baraldi

Gli avvenimenti politici che tengono banco sono due. L’annuncio che a giugno Chiodi non sarà più commissario alla ricostruzione, segnando la fine di una gestione fondata sui poteri eccezionali. Nello stesso tempo, si è aperto un dibattito nel centrodestra, in particolare nel Pdl, sui tre anni di governo regionale e sulla sua reale efficacia. Un dibattito che, finora, ha rivelato l’emergere di una crescente insoddisfazione. Come ha scritto il nostro giornale, per il presidente si apre una fase difficile. I due avvenimenti sono scollegati fra loro, eppure non si riesce a evitare la sensazione che un nesso tra i due eventi esista, e l’uno dipenda dall’altro più di quanto non sia manifesto. Intanto, va detto che è importante la discussione che si coglie nella maggioranza. Da mesi il nostro giornale ha messo in evidenza i limiti di un’azione di governo che sempre meno sembra rispondere all’interesse dell’Abruzzo e che finisce per danneggiare anche il centrodestra, che deve affrontare una fase impervia, come dimostrano i sondaggi calanti diffusi a livello nazionale. Il fatto che il malessere privato si sia trasformato in insoddisfazione pubblica merita attenzione, e credo sia necessario partire da qui per valutare la situazione. In una lucida intervista al nostro giornale, il consigliere regionale del Pdl Tagliente ha sottoposto a esame l’arte di governo dell’attuale presidente e della sua giunta.

Quello che colpisce della sua critica, e della sua richiesta di una verifica di maggioranza, è la sapienza tecnica con cui Tagliente sottopone a esame il governatore. Tagliente è un politico solido, con una lunga esperienza, ma in quell'intervista sembrava indossare i panni di un anatomopatologo che analizza le alterazioni di una malattia per capirne le cause e individuare una terapia efficace. Infatti, con il piglio del medico che studia gli organi, indica i punti critici del governo del centrodestra in Regione che, forse, si possono sintetizzare in una prognosi: presidente e giunta hanno perso i collegamenti con il suo partito, la sua maggioranza consiliare, e soprattutto con la società. Non a caso Tagliente ha indicato nell'atteggiamento della Confindustria il segnale d'insofferenza che arriva dai ceti più dinamici della società. Apriti cielo. Gli interventi si sono moltiplicati. Rabbuffo è arrivato a sostenere, in linea con Tagliente, che all'origine c'è un "delirio di autosufficienza". Oggi il deputato del Fli, Daniele Toto, uno che sembra contare con intelligenza le parole, avverte che sono molte le mancanze, ma una su tutte: la strategia che non c'è. Anche chi cerca tiepidamente di difendere il governatore, come il portavoce Chiavaroli, gli attribuisce di pagare il "clima politico".

In apparenza, si tratta di una giustificazione. Ma se si legge bene, le parole riflettono una convinzione non dissimile da quella di altri: un politico che non riesce a sintonizzarsi con il mutato clima politico, si può definire un politico vincente? E se questo politico è responsabile delle istituzioni regionali, non dobbiamo forse ritenere che sia sconnesso con la società? Guarda caso, è il rimprovero che viene lanciato con maggiore frequenza: il governatore è isolato, non ascolta. Mancano meno di due anni alla fine della legislatura e il Pdl non ha più molto tempo per invertire una tendenza. Ha ragione chi sostiene che le amministrative in Regione, a L'Aquila soprattutto, e nel Paese potrebbero segnare uno spartiacque decisivo. Il centrodestra sembra rendersi conto che l'azione dell'esecutivo arranca e riflette sempre meno i bisogni della società e dell'interesse generale. E tenta, giustamente, di porvi un rimedio. Ma siamo sicuri che questa faccia del problema sia disgiunta dall'altra faccia, cioè la fine del commissariamento? Vorrei proporre ai lettori un'analisi che non slega le due questioni. Se c'è un giudizio largamente condiviso, e purtroppo supportato dai fatti, è che la governance del terremoto non ha funzionato. Non ha prodotto i risultati sperati; anzi, può essere indicata come la causa dello stallo.

Il modello berlusconiano dello stato di eccezione, che sospende regole e istituzioni, ha finito per costituire il primo impedimento alla ricostruzione. E il suo reggitore, Chiodi, l'uomo che poteva tutto è anche l'uomo che ha concluso poco.

Oggi, a quasi tre anni dal terremoto, i sindaci vanno in Friuli a studiare il modello decentrato che meglio ha funzionato. Chiodi si lamenta delle divisioni interne alla struttura, dei veti incrociati tra i vice, si dipinge come un re senza corona, ma non può pensare di autoassolversi: ha i poteri e le risorse, poteva intervenire, far funzionare l'organizzazione. Non c'è riuscito. Quando il ministro Barca ha affermato, con Chiodi accanto, che "i soldi non sono stati spesi" emette una sentenza senza appello che la diplomazia mitiga appena. Ma il punto è che l'idea di accentramento verticale dei poteri, l'accumularsi nelle mani di un uomo solo delle deleghe, il meccanismo del capo unico, è proprio quello che ha rovinato Chiodi senza che se ne accorgesse. Intanto, questa condizione si è moltiplicata: il presidente della Regione è diventato commissario a quasi tutto, isolandolo dalle altre istituzioni e dalla società. Il dato più profondo è che questa forma esterna del potere sembra essersi calata su una psicologia interna a sua volta poco incline al confronto, poco disposta al dialogo, ideologizzata, portatrice di una visione di se stesso autosufficiente, perché senza gli altri. Altri interessi. Altre idee. Altre concezioni del bene comune. In fondo, il presidente è stato la prima vittima dello stato d'eccezione che lo ha ingessato, e persuaso che la maniera di essere giusta fosse quella in cui la fonte del potere scaturisce dalla sua persona non dai cittadini. Nel momento in cui lo stato di eccezione cade, a molti appare ciò che pochi avevano visto: un potere che aveva inaridito le istituzioni, neutralizzato le regole, reso asfittico ogni dibattito.

I poteri straordinari e la supremazia di una gerarchia opaca hanno finito per determinare la paralisi di istituzioni già di per sé poco efficienti. Troppo potere finisce per somigliare al suo opposto: potere nullo. Troppi poteri finiscono per capovolgersi in pochi poteri. Gli antichi romani avevano due termini per indicare queste differenti condizioni della sovranità: l'auctoritas che designava lo stato d'eccezione che portò Augusto a ergersi a primo imperatore e la potestas che indica il potere delle magistrature e delle istituzioni. Una divisione sulla quale si sono esercitati Weber e Schmitt. Nel 1938, il giurista berlinese Triepel sintetizzò bene nel suo libro "L'egemonia" questa dicotomia: l'auctoritas è fondata sulla persona, la potestas sull'ordinamento. Lo stato d'eccezione deriva dalla sospensione dell'ordine giuridico.

La figura del capo prevale sulla legge. E' questo modello che ora declina in Abruzzo. Il fallire del potere commissariale implica necessariamente l'emergere del vuoto che ha prodotto. Infatti, dal patto del lavoro alle riforme fino alla sanità, che non sia i tagli per riportare l'equilibrio dei conti (operazione riuscita), ma qualità dei servizi e gestione trasparente, in tutti questi capitoli il giudizio che si rafforza è critico. E' importante, quindi, che di fronte al tramonto dello stato d'eccezione, il centrodestra s'interroghi e discuta. Perché la questione posta da Tagliente, senza nominarla, è il passaggio dall'ordine imperniato sui poteri straordinari del capo al ritorno delle magistrature democratiche con la partecipazione, il dibattito non conformista e propagandistico, le negoziazioni alla luce dell'interesse generale. Vale a dire, lo stato di eccezione aveva in qualche modo ridimensionato la stessa politica e i suoi conflitti, la quale giustamente ora chiede di tornare a parlare "dei" e "per" i cittadini.

Il punto in agenda, quindi, è il passaggio dallo stato d'eccezione alla normalità. Per questo tutta la politica è interpellata: non solo un Pdl in difficoltà, ma un Pd in cerca d'identità, un terzo polo che non trova una strategia. Non si tratta, infatti, di tornare alla normalità inadeguata alle sfide. Al contrario, si avverte il bisogno di un leader, di decisione; ma un leader che agisca non in forza di un potere eccezionale ma in forza delle regole, e sia in ascolto. Anche la politica è prigioniera di vecchie abitudini. E dopo tre anni poco produttivi, se si esclude il pareggio dei conti della sanità, l'Abruzzo sente forse la necessità di un leader normale, di un governo normale, di un normale dialogo con il territorio. Un leader che sappia guidare un gioco di squadra nel quale tutti possano avere un ruolo. Perché solo uniti potremo superare le emergenze. Lo stato d'eccezione non unisce ma divide. Si capisce che questa riflessione riguardi tutta la politica regionale. Non si esce dall'emergenza escludendo, ma includendo. Potrà essere Chiodi l'attore che gestisce la transizione dalla stagione in declino alla nuova che s'annuncia? La partita è aperta.

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