La fine di un'epoca

di Sergio Baraldi

Le dimissioni di Silvio Berlusconi chiudono l’epoca della Seconda Repubblica e aprono un nuovo ciclo, che trova nella figura di Mario Monti la sua immagine chiave. Il congedo, in realtà, è maturato da tempo: l’uomo che ha governato per quasi vent’anni lascia un’Italia frammentata, in gravi difficoltà economiche e sociali, esattamente come l’aveva trovata. Lo ha notato, giustamente, il quotidiano "Le Monde", ma sarebbe sbagliato non accorgersi che Berlusconi non ha cambiato l’Italia, però ha mutato gli italiani. Per questo, la sua uscita di scena come premier offre l’opportunità di riflettere su quanto è avvenuto in questi anni, sulle sue conseguenze, piuttosto che concentrarsi sul nuovo atto politico ancora tutto da scrivere. Il Paese farà a meno di Berlusconi premier, anche se il politico calcherà ancora il palcoscenico. Il berlusconismo, invece, è un fenomeno con il quale faremo i conti a lungo. Quando morì la Prima Repubblica, Dc e Pci sparirono e non si comprese subito che la loro cultura politica sarebbe sopravvissuta e avrebbe influenzato il Paese per un ampio periodo.

Esiste una sfasatura tra le svolte storiche e l'onda d'urto che creano. Non siamo più nel berlusconismo, non siamo ancora nel dopo Berlusconi. Non ci troviamo oltre la linea, ma sulla linea.

Se è vero che le dimissioni di Berlusconi archiviano la Seconda Repubblica, il suo declino non potrà colpire solo il centrodestra, anche se questo probabilmente avverrà. Avrà effetti anche sull'altro campo, il centrosinistra. La transizione italiana, che si trascina da vent'anni, non approda a un assetto definito, chiaro del Paese; sbocca in una nuova transizione in cui quello che prevale è la de-costruzione della Repubblica incompiuta. Incompiuta perché i cambiamenti non si sono mai stabilizzati, né sono stati condivisi da una parte dell'opinione pubblica più ampia della maggioranza di governo. Di conseguenza, la transizione che s'inizia oggi avvia una ristrutturazione dello spazio politico nella quale il primo a essere preso dal vortice sarà il centrodestra, ma toccherà anche il centrosinistra.

La soluzione tecnico-politico che prende forma con Monti, sotto la salda guida del presidente Napolitano, segna un passaggio nel quale la credibilità delle due coalizioni appare debole per opposte ragioni. Berlusconi ha portato il Paese sull'orlo del fallimento, ha mancato la promessa di riforme modernizzatrici (tasse, scuola, sanità, burocrazia, economia). Le aziende del premier hanno moltiplicato i profitti; la nazione del premier si è impoverita.

Il centrosinistra, a sua volta, deve pagare il dazio delle sue insufficienze: i governi di Romano Prodi hanno fatto meglio di Berlusconi, ma non sono riusciti a imprimere un cambiamento durevole all'Italia. Soprattutto, oggi il centrosinistra non ha pronto un progetto per l'Italia da opporre alla crisi del berlusconismo; né ha una classe dirigente rinnovata e piena di energia alla quale chiedere di dare fiducia.

L'uno ha avuto un'egemonia incontrastata che non ha prodotto risultati, l'altro non è stato capace di farsi trovare pronto all'appuntamento con la storia. Per ragioni diverse, con responsabilità differenti, i due pilastri della Seconda Repubblica si sono dimostrati fragili. Così, di fronte al rischio del baratro economico, l'alternanza di governo si è inceppata.

Per questo Napolitano chiama il presidente della Bocconi, l'ex commissario europeo alla concorrenza stimato da inglesi, francesi, tedeschi, americani. Tocca all'Italia che ha il sapere e la credibilità. Ma non è l'Italia della politica.

Che questo sia il quadro che emerge, lo dicono le cause della crisi del governo nato con la più forte maggioranza parlamentare della storia repubblicana poi finita nella compravendita di parlamentari. Berlusconi si dimette non perché gli italiani gli hanno votato contro: non hanno fatto in tempo, anche se quasi certamente provvederanno. Non chiude perché l'opposizione ha saputo metterlo politicamente con le spalle al muro in Parlamento e nel Paese. Né cade perché le inchieste giudiziarie che lo assediano, lo hanno raggiunto. Berlusconi si arrende perché la sua legittimazione internazionale, già in declino, all'improvviso è crollata sia al tavolo dei rapporti internazionali sia nelle borse dei mercati. E' sull'altare dello "spread" che Berlusconi viene costretto in ginocchio. Sono le quotazioni dimezzate di Mediaset che lo hanno messo al tappeto. Sono i risolini di Sarkozy e della Merkel davanti alle tv di mezzo mondo che lo hanno oscurato. E' Obama che lo ignora e parla con Napolitano, come molti leader del mondo.

Teniamolo a mente: la crisi italiana va letta in stretto collegamento con la crisi greca. Per la prima volta, l'interdipendenza globale delle democrazie e delle economie ha mostrato il suo volto. E il suo potere.

L'euro ha cambiato le regole e la finanza: i nostri debiti sono diventati i debiti della Germania e della Francia; francesi e tedeschi sono autorizzati a giudicarci (e noi loro), possono commissariarci se diventiamo insolventi. La nuova struttura interdipendente globale ha una logica e crea quello che potremmo definire il "global consensus": chi non conserva la credibilità per rispondere alla sua razionalità, alla necessità dell'era globale in cui la reputazione è quotata, chi non sa governare nel mondo di oggi in connessione permanente (nel quale i tuoi danni diventano i miei danni), viene marginalizzato.

Il consenso internazionale non può permettersi che l'Italia, settima potenza industriale del mondo e fondatrice dell'Unione europea, vada alla deriva. Si sono mossi, facendo il vuoto attorno a Berlusconi. Quello che ciò significa lo sanno bene, ora, italiani e greci: perdita di reddito, perdita di influenza politica, perdita di autonomia.

Berlusconi, quindi, cade perché la sua legittimità esterna si dissolve. In questo caso, legittimità non va presa nel significato di conforme al diritto, che potremmo meglio definire legalità, ma come corrispondente a principi, ragioni e fiducia. Aveva ragione Carl Schmitt che contrapponeva legalità e legittimità, assegnando a quest'ultima la supremazia e riconoscendole un senso sostanziale contro la legalità formale e procedurale.

Berlusconi viene abbandonato e "tradito" quando si radica l'idea che sta portando il Paese a fondo e viene sfiduciato dal consenso internazionale e dai mercati. L'uomo che aveva vinto "vendendosi" come il modernizzatore dell'Italia ha riportato indietro l'orologio del Paese, impedendogli di adattarsi ai mutamenti, di competere, di crescere. La rivoluzione liberale di cui avremmo bisogno non è mai stata seriamente tentata. Anzi, è stata presto accantonata per un patto con le corporazioni, che frenano l'apertura alla modernità. Non averlo compreso ci consegna la prova dell'estraneità del berlusconismo alle trasformazioni del mondo contemporaneo.

I lettori si chiederanno: perché ha fallito? A mio avviso, per una ragione di fondo: nonostante le apparenze legate alla televisione come industria del futuro, esso è nato come un progetto vecchio, che risale al craxismo. Si afferma in condizioni storiche ed economiche completamente diverse, frutto di una cultura radicata negli anni Settanta e Ottanta. Ma la stagione di quegli anni era ricca, la spesa pubblica fu lasciata senza freni per drenare consenso, l'economia mondiale beneficiava del boom dell'inizio del liberismo mondializzato.

Oggi lo scenario si è capovolto: mondo ed economia hanno virato verso la crisi, non ci sono le risorse per presentarsi come il "partito dell'amore". La tv ha ceduto da anni a internet la cifra della modernità. Inoltre, la narrazione della gente comune non parla più come allora di mobilità sociale ascendente e ricca di promesse, ma di mobilità sociale discendente, assillata dallo spettro dell'insicurezza, della riduzione del reddito, della precarietà delle nuove generazioni. La gente non s'identifica più con la narrazione berlusconiana dei ristoranti e degli aerei pieni. In sintesi, Berlusconi non ha un progetto per il tempo duro del cambiamento e della crisi. E le sue promesse si rivelano illusioni.

Tuttavia, sarebbe un errore non considerare l'altro aspetto dell'eredità di Berlusconi. L'Italia non è cambiata, ma gli italiani in parte sì. La responsabilità più grave del premier consiste nell'avere investito politicamente sulle divisioni del Paese, che non ha creato lui, ma che lui ha legittimato e trasformato in una ideologia rigida, chiusa a critiche e dissensi. La trasformazione della politica in "guerra" non combattuta e dell'altro (avversario o immigrato non importa) in "nemico" rappresenta il fulcro di questa ideologia.

Berlusconi ha investito sulle fratture del Paese come non era successo neppure al tempo della vera "guerra fredda", quando lo scontro era duro, ma gli italiani si rispettavano. La parola d'ordine è stata "o di qua o di là", dando vita a una sorta di paradossale "leninismo" che somiglia molto nella forma mentale al comunismo che diceva di combattere.

Dove Berlusconi ha davvero innovato è stato nella gestione della comunicazione politica e del mercato elettorale. Inoltre, è giusto riconoscergli un ruolo di primo piano nella nascita della democrazia maggioritaria. La Terza Repubblica comincia senza di lui, anche se il suo spettro si aggirerà per il Paese.

La sua caduta ricorda quella di Craxi con la gente che lo bersaglia di proteste. Fu il suo amico Mike Bongiorno a descriverlo, prima di morire, solo e in preda all'angoscia: "C'era come un senso di freddo e di buio attorno a noi". L'uomo che volle farsi leader è stato molte cose, ma una luce no.

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