«La nostra amata vetta ferita al cuore»

Gli alpinisti raccontano le loro emozioni: «Il Gran Sasso vuole ridisegnarsi da solo». «Aver messo i piedi sulle rocce e adesso non ritrovarle più ispira un senso di grande impotenza e anche di stupore»

PESCARA. La montagna di Mussolini e di Papa Wojtyla, del ghiacciaio del Calderone, delle aquile e dei camosci. E della vista che, da lassù, può spaziare dal Tirreno all'Adriatico. Ma anche la seconda casa di tanti alpinisti e sciatori che la tengono nel cuore. Fu proprio «Un cuore rosso sul Gran Sasso» il dono portato sul Corno Grande dalla spedizione organizzata dall'omonima associazione, che alla catena regina degli Appennini ha dedicato un libro. Per Antonio Massena, alpinista e direttore del teatro “L'Uovo”, da ieri, in quel cuore «si è aperta una nuova ferita». La metafora del cuore ferito, stavolta, sembra scritta apposta. Del resto, così appare ora la montagna, ferita al cuore dopo la frana. Massena questa montagna la conosce bene. Ha firmato le fotografie di “Breviario del Gran Sasso” (uscito l'anno scorso), un'opera alla quale hanno lavorato anche Errico Centofanti (antologia di testi), Rita Centofanti (progetto editoriale) e il pittore Sandro Visca.

«L'immagine di durezza e di compattezza di queste nostre cime, come anche di quelle delle Alpi, contrasta in maniera impressionante con la facilità con la quale si vanno ora sgretolando», commenta Massena, che è salito l'ultima volta sul Corno Grande il giorno prima di Ferragosto, dove ha trovato ghiaccio e temperatura vicina allo zero. «Per chi come me tante volte si è arrampicato su quelle rocce e oggi non le vede più, perché il paesaggio cambia aspetto, è come se mancasse un punto d'appoggio. Insomma, di fronte a questi fatti si ha il senso dell'impotenza umana e di come velocemente stia cambiando la natura. L'ultimo evento ci ribadisce che quelle rocce rimaste lì per secoli possono cencellarsi in un attimo. E non ci sarà nessuno, se non una gettata di cemento armato a tremila metri di quota, a restituircele così come le abbiamo conosciute, accarezzate e superate. E anche se gli esperti parlano di fatto normale, mi viene da pensare una volta di più a come noi uomini stiamo contribuendo poco a poco a distruggere questo incanto». Bruno Marconi, presidente del Cai dell'Aquila, invita a riflettere sul poroblema della sicurezza. «Il Gran Sasso», spiega, «non è una montagna da sottovalutare e va affrontata con le dovute cautele, a partire dalla conoscenza dei luoghi, dal rispetto della segnaletica sui sentieri e dall'uso di un'attrezzatura adeguata.

Da sempre il Cai si adopera in questa direzione attraverso corsi, escursioni guidate e campagne educative. Il comprensibile desiderio di scoprire le bellezze della montagna va unito alla prudenza e all'ausilio di accompagnatori competenti». Per Aldo Napoleone, già presidente del Cai aquilano, «in montagna nulla è definitivo né immutabile, come confermano questi fenomeni che certamente colpiscono dal punto di vista emotivo tutti i frequentatori e gli appassionati. L'aspetto esteriore cambia e la montagna stessa è come se volesse ridisegnarsi secondo un suo progetto imperscrutabile, che non può essere fermato da nessuno». «Dopo la “farfalla”, la frana di sette-otto anni fa così ribattezzata dagli alpinisti, adesso dovremo trovare un altro nome», ricorda Giampaolo Gioia capo del soccorso alpino. «Certo, è strano che sia successo in estate e non al primo disgelo».