Masi, l’assassino resta un mistero

Cade la pista svizzera, l’inchiesta verso la seconda archiviazione

TERAMO. Delitto Masi, gli assassini restano senza nome. La pista svizzera dell’operaio imputato del delitto fotocopia non ha trovato riscontri. Dopo quattro anni dall’omicidio dei coniugi, la procura si avvia a chiedere la seconda archiviazione. Gli assassini dell’avvocato Libero Masi e della moglie Emanuela Cheli, uccisi a 57 anni a colpi di machete nella loro villa di Nereto, non si trovano.

 Le nuove indagini, chieste dal gip Marco Billi (da qualche giorno in servizio al tribunale civile dell’Aquila) che ad aprile aveva respinto la prima richiesta di archiviazione presentata dal procuratore Gabriele Ferretti e dal pm Bruno Auriemma, non avrebbero aggiunto elementi nuovi alla ricostruzione di investigatori ed inquirenti. Neppure la pista del delitto fotocopia in Svizzera, quella che aveva riacceso le luci su uno dei più efferati omicidi d’Abruzzo.

Il gip aveva chiesto alla procura gli atti di un processo svizzero il cui imputato era un operaio romano accusato di aver ucciso due coniugi in casa. Ma cosa c’entrava l’operaio con i Masi? A Roma abitava nello stesso palazzo in cui, all’epoca dei fatti, viveva un familiare dei coniugi. E proprio a quel familiare l’uomo, chiamato per fare dei lavoretti nella villa di Nereto, aveva fatto domande sui guadagni dell’avvocato. Gli atti del processo, chiesti con una rogatoria internazionale, sono arrivati a Teramo e sembra anche che quell’operaio sia stato ascoltato. Ma gli indizi cercati non sono emersi. Così come, almeno sembra visto che le nuove indagini sono avvolte da uno stretto riserbo, nessuna novità sarebbe arrivata dai nuovi accertamenti sui tabulati telefonici.

 Il gip, infatti, aveva chiesto anche di fare delle verifiche sui tabulati dei telefoni cellulari che la notte dell’omicidio agganciarono le celle (gli impianti con cui la telefonia mobile suddivide il territorio) nella zona di Nereto. Anche nella seconda richiesta di archiviazione si fanno i nomi di cinque persone, due teramani e tre marsicani, indagate nell’inchiesta sul duplice delitto. I nomi dei teramani, di cui uno nel frattempo morto, furono fatti alcuni anni fa da un uomo successivamente arrestato per calunnia perchè le sue accuse, secondo la procura, si rivelarono infondate. I tre marsicani, invece, sono gli stessi che cinque mesi dopo il delitto di Nereto vennero arrestati e poi condannati (prima all ergastolo e in secondo grado a 30 anni) per l’omicidio di Roberto Manni, un giovane commerciante di Morino ucciso a colpi di ascia e bruciato. Un’altra similitudine con Nereto che, inizialmente, aveva fatto pensare alla stessa mano.