Medico in Africa dove la salute è sfida e riconoscenza

Carlo Carusi, chirurgo plastico di Celano, ha concluso la prima missione in Togo con l’associazione Aicp

Un bambino di 7-8 anni, con una ferita al ginocchio, percorre a piedi, zoppicando, decine di chilometri per farsi medicare, accompagnato dalla sua mamma sotto una calura insopportabile. Troverà il medico volontario pronto a prendersi cura di lui. E il sorriso di gratitudine del piccolo non ha prezzo. In Togo, una striscia di niente tra Ghana e Benin, è solo dei tanti episodi che raccontano l’esperienza dei volontari dell’Aicpe (Associazione italiana chirurgia plastica estetica) che opera in Africa. Uno dei volontari è il dottor Carlo Carusi, di Celano, 31enne medico chirurgo del Campus biomedico di Roma e specialista in chirurgia plastica e ricostruttiva. Ha partecipato alla missione umanitaria all'ospedale St. Jean de Dieu di Afagnan, in Togo, la seconda delle tre missioni di quest’anno nell'ambito del "Progetto di chirurgia plastica umanitaria nei paesi in via di sviluppo", organizzato da Aicpeonlus, associazione no profit. Il presidente è il dottor Claudio Bernardi che vi ha partecipato insieme ai medici Carusi, Chiara Botti (chirurgo plastico) e Patrizia Roscilli (nutrizionista). Tra le patologie più diffuse ci sono le ustioni.

Dottor Carusi, qual è la molla che spinge un medico a fare il volontario?

«Dialogando con il presidente della onlus, Bernardi, si è parlato di questa nuova missione umanitaria in Togo. Un po' l'entusiasmo del chirurgo, e in parte il desiderio di aiutare gente veramente bisognosa: ecco, unendo queste due cose, ho pensato di partire. Per me era la prima volta».

Cosa l’ha colpita di più?

«La compostezza di pazienti e familiari e la dignità nell'affrontare patologie dalle più semplici alle più gravi. Inoltre, il rispetto verso noi medici che venivamo visti come persone che fanno del bene. I pazienti ne erano consapevoli ed erano incredibili la sopportazione, l'accettazione della sofferenza e la dignità. Era raro vedere pazienti lamentarsi».

E la più grande difficoltà incontrata?

«Cercare di conciliare i ritmi della sala operatoria occidentale con quelli del personale sanitario locale. In sala operatoria abbiamo cercato di far capire che andava usata un'altra velocità per eseguire gli interventi. Ma alla fine ci siamo trovati molto bene e in tre settimane abbiamo operato 40 pazienti in circa 50 interventi chirurgici. L'ospedale, per il posto in cui ci trovavamo, era un fiore all'occhiello».

Di quanta utenza poteva disporre?

«Poteva ospitare qualche centinaio di persone. La struttura è stata costruita dal Fatebenefratelli 50 anni fa».

C’è stato qualche episodio che le è rimasto particolarmente impresso?

«Siamo andati una volta in un villaggio sperduto nella giungla con le case fatte di fango e paglia, senza servizi essenziali, accompagnati da suore missionarie per eseguire prelievi, come screening per i bambini. Vedere bambini di 3-4 anni fare la fila con coraggio e dignità è stato toccante. E poi un paziente sottoposto a un intervento difficile e doloroso per l’asportazione di un tessuto muscolare ci ha sbalordito per il suo livello di sopportazione. E ci ha anche ringraziato per il nostro lavoro.

Esperienza da ripetere?

«Sì, perché aiuta a ristabilire le priorità e i valori, Da consigliare al personale medico, ma anche ai nutrizionisti».

Qual è il problema numero uno che ha riscontrato in quella fascia d’Africa?

«L'indigenza, l'estrema povertà, la mancanza di strutture e di servizi di base. È difficile anche far capire alle famiglie che un bimbo di 5-6 anni non deve coltivare la terra ma andare a scuola. E poi bisogna fare formazione perché in Africa hanno bisogno di muoversi autonomamente. Un intervento chirurgico illustrato e discusso può poi essere effettuato da chirurghi del posto».

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