Pomilio, maestro dimenticato

Vent’anni fa la morte dello scrittore. Analizzò il dissesto della società

Vent’anni - tanti ne sono trascorsi dalla morte - sono sufficienti per constatare che il tempo ha dissipato il fervore e aumentato la distanza da Mario Pomilio, rimosso dalla società contemporanea. Merita però di essere ricordato. E’ tuttora intensa la memoria dei romanzi dell’esordio e dei cinque racconti Il cane dell’Etna, che reca il pregnante sottotitolo Frammenti d’una enciclopedia del dissesto, ma soprattutto della Compromissione, de Il quinto evangelio e del Natale del 1833. Le generazioni più giovani non hanno memoria, e la letteratura, purtroppo, perduto l’intrinseco valore, non riempie più il vuoto e non dà un senso pieno alla vita. Lo spettacolo e la festa mediatica abbondano, e il dramma, l’angoscia e la pietà, allorché non sono consumati mediaticamente, non sono più praticabili.

La restrizione al regionalismo abruzzese e napoletano non è stata favorevole allo scrittore, contratto in uno sfondo critico non consono, quando invece la sua dimensione è europea, come d’altronde era per habitus e formazione. Accantonando, dunque, le rivendicazioni identitarie, che ebbero buon gioco nei decenni scorsi, Pomilio è stato il prodotto di queste due realtà. Non di più. In pagine illuminanti Raffaele La Capria ha osservato che da «napoletano anomalo», anzi «alieno» Pomilio inserì nella cultura napoletana un elemento estraneo: lo spirito e la tematica religiosa. In tal senso non fu neorealista ma distante dagli stessi amici scrittori (Prisco, Rea, Compagnone, Incoronato), fu molto di più e altro. Anche l’etichetta di scrittore «cattolico» non è la cifra giusta, pertanto. Averlo incasellato in quella nostra tradizione ne ha alterato il senso e la complessità.

Iniziò nel lontano 1942 l’attività intellettuale con un articolo sul «mondo morale» di Svevo, proseguita con tanti romanzi, articoli, saggi, alcuni riediti, insieme con due volumi del 1997 a cura della Regione Abruzzo e con Emblemi. Poesie 1949-1953, curate dal figlio Tommaso nel 2000. Il ventennio trascorso - con le debite eccezioni - ha fatto emergere poco e molto materiale è ancora sparso nei quotidiani e nelle riviste. Da Giovanni Macchia, con il quale discusse la tesi di laurea alla Normale di Pisa nel 1945 su Pirandello, apprese l’amore per i secentisti francesi. Partì da Cellini e continuò, nel tempo, gli studi critici su Verga e Capuana, Michele Prisco, Rea, Brancati, Serao, Scarfoglio, ebbe una passione per la politica azionista, poi per il socialismo lombardiano, fu parlamentare europeo, vinse numerosi premi (il Campiello nel 1965 e il Flaiano nel 1974, tra gli altri), visse a Napoli, prima da insegnante nei licei poi nelle università partenopee. Con Michele Prisco e altri fondò la rivista «Le ragioni narrative», scrisse la memoria introduttiva alla riedizione di quel grande classico di critica quale Mitografia del personaggio (1991).

La categoria critica più consona per Pomilio è lo sradicamento. I suoi personaggi sono senza radici, come l’uomo contemporaneo, in preda agli interrogativi ai quali non ha risposte plausibili. Fin dalle opere dell’esordio, Il cimitero cinese, del 1951-1957, L’uccello nella cupola, del 1953-1954, e Il nuovo corso, del 1957-1958, risultò ossessivo il motivo della solitudine (con i dittici «solo e sradicato», «solo e derelitto» e «soli e sbandati»), insieme con la parola-chiave angustia, tratta da una tradizione dotta rispetto ad angoscia, e correlata all’accidia. Nelle narrazioni Pomilio rappresentò un universo immaginario pervaso dai «simboli della morte» e dalla sua «terribilità», dall’ossessione del peccato, della grazia, del dolore, del male e dell’agostiniano credo quia absurdum est.

Le questioni formali, tuttavia, restano alquanto in ombra. L’attenzione maniacale alla vita psichica, l’analisi impietosa del «paradiso della ragione» limitano le avventure romanzesche, non dilatano la dialettica delle forme. Eppure, già nel saggio su Cellini era evidente l’analisi delle strutture narrative, tematiche e linguistiche, che diventarono una forma di lavoro e determinarono una forma di pensiero. Invadono le pagine la testimonianza e la confessione (Il testimone, del 1955-1956), la filologia, che diventa essa stessa un’esperienza religiosa ne Il quinto evangelio, il romanzo saggio e il conte philosophique. Il testimone è anche personaggio e il narratore è sempre testimone del naufragio dell’umano, è maestro del dubbio e registra il vuoto, il negativo, la disperazione. Il Marco Berardi della Compromissione è narratore e protagonista, l’ufficiale americano Peter Bergin de Il quinto evangelio, testimone e personaggio al tempo stesso, racconta la propria storia.

Negli anni sessanta del secolo scorso, preoccupato per le sorti della letteratura e per un mondo frammentario e disgregato, Pomilio intervenne sulla crisi delle ideologie (il Berardi della Compromissione non sbriciola l’ideologia?) con La grande glaciazione, un saggio significativo in rapporto con il «dissesto contemporaneo», il congelamento e il «grande freddo», con un’etica della responsabilità e i valori nei quali la parola è un’assoluta certezza. Il «testimone» Pomilio intese restaurare i valori disgregati, riunificare storia e ragione con un lavoro di scrittura tantalico, non con le sperimentazioni formali della neoavanguardia.

Non accettò la registrazione della disumanizzazione, rifiutò il relativismo etico, totalizzò un impegno per una letteratura in conflitto con l’ideologia. Peccato che per tanti critici egli sia diventato un ideologo. La riflessione odierna, favorita dall’occasione dell’anniversario, invece, deve insistere sul conflitto tra la condizione «cattolica» e le profonde tendenze della modernità (Giulio Ferroni) per riflettere sulla nostra precarietà, sui «mostri» che invadono la coscienza, sui tormenti e sui dubbi naufragati nel mare della società civile e politica, e che, dalla superficie ove galleggiamo, hanno bisogno di essere recuperati e rimessi laicamente al centro della vita quotidiana.

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