Sciacalli, le mille facce delle ditte corrotte

Un investigatore: se esiste il sistema, facile duplicarlo nel cantiere più grande d’Europa

L’AQUILA. «Così come nella lista delle ditte impegnate non troverai mai il nome Salvatore Riina spa, ecco che, nascosto tra le pieghe di consulenze, appalti, subappalti, servizi e forniture qualcuno degli sciacalli può benissimo aver piazzato la propria bandierina. A nome suo o di altri». L’investigatore, uno degli uomini del pool impegnato in città nei controlli per arginare lo sbarco di personaggi pericolosi interessati agli affari del post-terremoto, parla del caso-G8.

IL PENTOLONE.
«Il pentolone è appena scoperchiato». La battuta viene soffiata nella nuvola di fumo di una sigaretta. Poi il controllore argomenta. «Non sperate di trovare subito i legami con quello che è stato oggetto di indagine a Firenze». Del resto, è praticamente impossibile dipanare la matassa delle partecipazioni all’interno di una società di capitali. Spesso, infatti, si tratta di organismi variamente assortiti, di matrioske multicolori nelle quali è difficile orientarsi. L’abruzzese Letta: «Gli sciacalli sono fuori dai nostri appalti. Chi rideva non ha avuto e non avrà un euro, qui da noi».

La Protezione civile ha già guardato tutti gli elenchi e rimarca con decisione: «La società Anemone», di proprietà dell’imprenditore Diego, arrestato nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Firenze sui lavori per il G8 alla Maddalena, «non ha ottenuto l’affidamento delle opere realizzate all’Aquila dopo il terremoto, né in appalto né in subappalto. E nella ricostruzione non sono coinvolte neanche altre società citate nell’ordinanza del gip Rosario Lupo. Tra queste non risultano né appalti né subappalti a Consorzio Stabile Novus, Bpt, Giafi ed Erretifilm». Tuttavia, affermare in maniera lapidaria, in base alle prime indiscrezioni successive all’ordinanza, che qui non ci siano superfetazioni di quel genere di ditte appare azzardato.

E lo sanno gli stessi investigatori che più che altro sono concentrati sulle indagini sulle ditte in odore di mafia. Sei quelle finora rintracciate e denunciate, secondo l’ultimo bilancio, più una settima privata del subappalto con contestuale ritiro della certificazione antimafia. Ma sarebbe impossibile, al momento, se anche si trovasse un nome dell’inchiesta fiorentina «duplicato» sull’Aquila, assumere provvedimenti di esclusione, così come avviene per i subappalti facili.

IL SUBAPPALTO FACILE.
Quindici, infatti, le ditte escluse per la violazione della norma sui subappalti. Il che non vuol dire, automaticamente, che una ditta è mafiosa. Può capitare che le ditte non siano autorizzate nel subappalto. Può capitare anche che le imprese si siano sostituite a quelle che risultavano sulla carta come beneficiarie del subappalto. Oppure che le ditte indicate e verificate non avevano titolo per lavorare. C’è il caso dell’impresa che ha tempi molto ristretti per finire un lavoro, e nel post-terremoto questa è la regola, in quanto deve produrre in un tempo ristretto. Questa ditta, grazie alla deroga straordinaria, pro-terremoto, alle restrizioni normative contenute nel codice degli appalti, può superare la soglia di sicurezza del 30 per cento e subappaltare fino al 50.

L’imprenditore che ha fretta di finire chiama tanti soggetti a lui collegati e affida i lavori sulla base di un rapporto fiduciario. La ditta capofila non si mette certo a indagare sulla subentrante. L’importante è che l’offerta sia conveniente. E così, anche ditte escluse dagli appalti principali possono rientrare dalla finestra. La torta dei subappalti del piano Case ammonta a 169 milioni. Secondo la denuncia rilanciata in parlamento dalla deputata Pd Laura Garavini, le autorizzazioni chieste alla stazione appaltante hanno efficacia dalla data di presentazione delle domande, il che elimina retroattivamente l’eventuale subappalto non autorizzato.

LA PROCURA SI MUOVE.
Pur particolarmente impegnata, in via primaria, sul fronte delle inchieste sui crolli, la Procura aquilana potrebbe chiedere gli atti ai colleghi toscani per dare uno sguardo alle carte che hanno gettato ombre pesanti sulla gestione della Protezione civile. E per valutare se l’asserito modello G8 sia stato esportato anche all’Aquila. Finora, infatti, l’indagine non pone l’accento sulla ricostruzione post-terremoto.

Ma mira a dimostrare che esisteva un «sistema» di cui la Protezione civile era parte in causa. «Nel cantiere più grande d’Europa non c’è una persona che possa escludere, con matematica certezza, che qualcuno del giro non si sia infilato in qualche affare più o meno trasparente», dice in conclusione l’investigatore. «Dalle consulenze ai progetti, dalle forniture ai servizi ai lavori di altro tipo. Al di là dell’impresa camorrista o meno, è certo che di faccendieri, in città, ne sono girati, e ne continuano a girare, parecchi».

Basta parlare con quei sindaci che hanno ricevuto la visita di improbabili mediatori che hanno proposto loro una soluzione rapida per il problema-macerie. Ma sono stati tutti rimandati al mittente. Gli sciacalli del mattone, insomma, non smettono di volteggiare sulla grossa torta della ricostruzione. Con sullo sfondo il «sistema gelatinoso» della Maddalena, come si fa a escludere che i trucchi non abbiano attecchito anche qui?