Segnale forte al paese

di Sergio Baraldi

La nascita del governo Monti rappresenta un segnale forte al Paese. È il volto dell’Italia che ha subito un declassamento politico ed economico che vuole reagire e riconquistare le posizioni perdute. Ma è anche il segno dell’emergenza che ha cambiato il quadro nazionale e internazionale, e che deve essere gestita con decisione e rapidità. Forse anche per questo, lo stile è diventato il messaggio di Monti ai mercati e all’Europa che ci hanno promossi a “sorvegliato speciale” della Commissione Europea e del Fondo monetario internazionale. Sotto questo aspetto, non poteva esserci una distanza maggiore rispetto al berlusconismo, alla sua enfasi, che ha trasformato la difficile arte di governare un Paese moderno in spettacolo, alle sue illusioni sulle ricette miracolistiche del fare poco o quasi nulla, che trovava sempre la sua battaglia quotidiana da combattere, ma che non ha compreso l’avvicinarsi di una crisi profonda che lascia un Paese sull’orlo del precipizio con lo “spread” oltre quota 500. La discontinuità con Berlusconi non potrebbe essere più radicale nella sostanza e più diplomatizzata nella forma. Tanto il Cavaliere era scettico e lontano dal cuore dell'Europa che conta, tanto Monti è vicino a questa Europa, ne condivide metodi e valori e, per questo, è riconosciuto come un interlocutore affidabile e autorevole.

Se la composizione del governo Berlusconi raccoglieva un ceto politico logorato dagli anni della militanza e spesso improvvisato nel governo, l'esecutivo di Monti mostra, all'opposto, l'entrata in campo della competenza vera, quella che si forma nelle aule delle università e dei centri di ricerca o al vertice delle grandi aziende internazionali. Anche il ruolo che Monti assegna alle donne è rivelatore di una cultura inconciliabile con il berlusconismo: a loro sono affidati tre ministeri chiave, la giustizia il welfare e il ministero dell'Interno, e di conseguenza una funzione centrale che sarà notata all'estero. Ma soprattutto si tratta di donne molto diverse nella biografia e nell'impegno civile, professionale, rispetto alle donne reclutate da Berlusconi spesso nel mondo dello spettacolo e non sempre adeguate a reggere le sfide di oggi. Infine, una differenza fondamentale: quello di Monti è un vero governo del Nord, perché attinge alla borghesia colta e alle professioni principalmente di Milano e Torino, a mondi cattolici e laici seri e illuminati, certo non al nordismo corporativo e chiuso di Bossi.

Si capisce che l'idea che ha guidato Monti è formare una squadra - quindi di governare secondo i principi di un metodo moderno - scegliendo tra i migliori che la nazione potesse offrire. Di fronte all'emergenza, Monti gioca la carta della credibilità. Del resto, a far cadere Berlusconi non sono state né le inchieste dei giudici né l'azione incisiva dell'opposizione, ma la sua crisi di credibilità di fronte alla platea del mondo. E Monti è subito entrato dentro una partita europea, perché è consapevole che se i vincoli esterni si sono rivelati decisivi nella caduta di Berlusconi lo saranno anche per la riuscita della sua missione.

Fino all'ultimo i partiti hanno fatto fatica a compiere il salto di qualità che l'emergenza richiede: i veti incrociati, le trattative notturne attorno ai nomi di Letta e Amato, hanno rivelato come siano pesanti i condizionamenti degli interessi di parte rispetto a quelli del Paese. Ma è già chiaro che l'esperimento del "governo dei professori", forse il primo vero governo tecnico, se riuscirà innescherà una ristrutturazione del sistema politico.

Il Pdl dovrà fare i conti con il fallimento della maggioranza più forte mai uscita dalle urne, con il vicolo cieco in cui è finito il modello di leadership carismatica impersonato dal Cavaliere. La debolezza del governo di centrodestra appare evidente non solo dai grafici dello "spread" e dai problemi che il paese vive, ma anche per le prime, sintetiche parole pronunciate dal manager Corrado Passera, chiamato a guidare lo Sviluppo e le Infrastrutture: "Sviluppo sostenibile e posti di lavoro". Non ha aggiunto altro, ha solo sottolineato "sostenibile". Non avremo i ministri a fare la passerella ai talk show per poi realizzare poco di fruttuoso per i cittadini, avremo professori che sanno di cosa si discute, quali risposte il Paese può formulare e sopportare.

Anche il Pd dovrà fare i conti con la sua cultura di governo: le riforme dovevano proporle loro per diventare un'alternativa pienamente credibile. Forse Bersani avrà il tempo per tornare al Lingotto e discuterne con i suoi. Si può immaginare che il dibattito si riapra non più sulla base di posizioni ideologiche, ma sulle riforme, sulle soluzioni, sul merito delle grandi questioni. Con Berlusconi l'asse del Paese si era spostato sulla politica parlata, se non annunciata, per diventare di fatto il prolungamento delle corporazioni che impediscono all'Italia di diventare un paese pienamente moderno. Adesso l'asse si posta sul nucleo essenziale della sfida: le riforme strutturali da fare, gli interventi per attuare un cambiamento profondo. In sintesi: il progetto per il Paese senza il quale nessuna nazione può pensare e costruire il futuro. Questo è il cambio di passo che Monti sta imponendo, la nuova logica con la quale tutti, compresa la politica, dovranno fare i conti, se vogliamo superare la crisi. Le incognite non mancano.

Il governo tecnico rende più libero il Parlamento, e questo spazio potrebbe richiedere una negoziazione più intensa con partiti e gruppi. Non sarà facile, non solo dal punto di vista tecnico, effettuare un raccordo con un Parlamento svincolato dai doveri di maggioranza e opposizione e le sue complesse commissioni: non a caso tra i ministri ha chiamato il prof. Pietro Giarda, che ha già avuto un'intensa esperienza con Prodi. E non dimentichiamo che alcune commissioni sono presiedute da leghisti, che si apprestano a votare contro.

Per questo il tempo è fondamentale per Monti: deve agire rapidamente. Ha la necessità di non immaginare solo i singoli provvedimenti, ma di mettere in cantiere una visione da raccontare ai cittadini, affinché possano comprendere quali sacrifici sono necessari, ma in nome di quale idea di Italia e di quale interesse generale. La sfida più difficile per Monti, un uomo di poche parole, dunque, sarà aprire un discorso convincente sul futuro del Paese in Europa, con quali costi, per ottenere fiducia e partecipazione. Se anche il parlamento percepirà l'adesione dell'Italia al progetto di rilancio di Monti, sarà più difficile per i partiti rallentarne il cammino e complicargli il lavoro.

La politica italiana, del resto, si troverà presto a un bivio: deve passare da una lunga fase di "guerra civile simulata" a una sorta di solidarietà nazionale. Anche per questo quello di Monti diventa, forse, un passaggio ineludibile: la fase di un confronto depurato dal risentimento reciproco e della possibile condivisione. Per questo l'Italia può contare sulla guida sicura e intelligente del presidente Napolitano, che si è rivelato il vero regista del sistema politico, il reggitore della crisi, il garante della nostra residua legittimità presso i governi del mondo.

In qualche modo, il governo Monti si ritrova l'onere e l'onore di ridefinire l'interesse nazionale dopo che, per anni, ha prevalso l'interesse particolare, quasi che la frammentazione dell'ognuno-si-salvi-da-solo potesse essere l'unico antidoto alla competizione internazionale sempre più difficile. Monti dovrà, quindi, parlare alla politica e al Parlamento, ma dovrà soprattutto parlare al Paese, affinché comprenda che quella che viviamo è una crisi strutturale e non una burrasca passeggera, come pensava Berlusconi.

Questa consapevolezza deve assumerla anche l'Europa. L'altalena dei mercati si rivolge ora contro nazioni più robuste di noi, dal punto di vista dei conti, come la Francia. L'Italia è diventata troppo facilmente una sorta di capro espiatorio dell'Europa a causa della sue debolezze e della mancanza di credibilità di Berlusconi. È venuto il momento che l'Europa capisca che molte cose devono cambiare anche a Bruxelles, che l'euro richiede una diversa maturità e guida politica.

Dobbiamo imparare tutti a guardare al mondo: pochi giorni fa il presidente Obama alle Hawaii ha annunciato un cambio di strategia globale degli Usa, spostando sul Pacifico eserciti, risorse, interessi. Dall'altro lato di quell'oceano ci sono la Cina e l'Asia, che intendono intestarsi questo secolo. Sia Washington sia Pechino leggono l'Europa come parte del problema non della soluzione. È vero che l'Italia ha i "fondamentali" che reggono (risparmio privato, ricchezza delle famiglie, manifatturiero), ma questo non può diventare un alibi per consentire a ceti privilegiati di bloccare l'adattamento del Paese alle nuove condizioni della competizione territoriale-economica mondiale. Al contrario, devono diventare la leva per voltare pagina e smetterla di raccontarci storie.

La crisi del debito sovrano strappa il sipario del palcoscenico e ci fa scoprire i nostri ritardi, le nostre contraddizioni, i nostri errori. Quella delle storie è stata la specialità del berlusconismo. S'insedia un governo che può parlare con le scelte da compiere e le responsabilità da assumersi.

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