«Un lavoro per i detenuti Solo così il carcere “cura”»

Parla Luisa Pesante, direttrice della casa circondariale di Sulmona «Al legislatore raccomando di cogliere il percorso positivo dei reclusi»

SULMONA. La casa circondariale che da via Lamaccio si staglia contro il Morrone la conoscono tutti come “il carcere dei suicidi”. Un marchio a fuoco che la direttrice Luisa Pesante – è la seconda donna a dirigere la struttura dopo Armida Miserere, morta suicida nell’aprile del 2003 – vuol cercare di lavare via. Con piccole trasformazioni, aperture al mondo esterno che vanno decise con attenzione per non sbagliare. Ed è di sabato scorso il congresso della Fillea Cgil dentro al carcere, il primo nella storia del sindacato. Il viso apparentemente duro della direttrice dal nome emblematico tradisce un sorriso di dolce soddisfazione, quasi il sapore di una “conquista”, quando parla dei progetti avviati per il reinserimento dei detenuti, o quando descrive i diversi laboratori di artigianato in cui i reclusi imparano un mestiere.

Risponde alle domande scegliendo come sfondo uno dei murales che arricchisce il corridoio del piano terra realizzato dai reclusi. A breve, partirà l’ampliamento del carcere per accogliere altri 200 detenuti. Un nuovo padiglione che risponderà alle domande “come, dove e per chi”, mettendo al centro il reinserimento del recluso, come ha spiegato il commissario all’edilizia penitenziaria, Angelo Sinesio.

Dottoressa pesante, il congresso della Cgil di sabato scorso è stato un segnale che si è voluto inviare all’esterno per abbattere il connubio carcere-suicidi che lo ha caratterizzato?

«Una brutta nomea che il carcere di Sulmona purtroppo si porta dietro, che in realtà è un triste fenomeno che ha caratterizzato tutti i carceri italiani. Ma qui ha avuto più clamore rispetto che altrove. Siamo di fronte a tragedie ogni volta che avviene un suicidio. Ma non è un fenomeno che ha colpito particolarmente questo istituto».

Come combattere il disagio che vivono i detenuti tra le pareti di un carcere?

«Il disagio fortissimo dei detenuti lo si combatte innanzitutto all’interno del penitenziario, con l’attività degli operatori penitenziari, da parte dei quali c’è una grandissima professionalità nonostante la carenza d’organico della polizia penitenziaria e di altri, come gli educatori e gli psicologi. In questo momento l’amministrazione penitenziaria ha messo in atto un sistema organizzativo che sta funzionando bene. Mi dispiace, invece, che la stampa enfatizzi situazioni tipiche, come le evasioni o i suicidi che, per carità, hanno bisogno di essere raccontate, ma non misuri mai il dato statistico con quanto avviene a livello nazionale. Questi fenomeni potrebbero essere molto più ampi e invece l’amministrazione penitenziaria riesce a contenerli».

Quanto è importante il lavoro per evitare questi episodi estremi ma anche per il reintegro dei detenuti nella società una volta fuori dal carcere,?

«Il lavoro è lo strumento principale di reinserimento del detenuto per una sua ripresa dignitosa di vita nella legalità e per un rientro nella società a tutti gli effetti. Ma per quanto riguarda questo aspetto in particolare, resto delusa dal nostro legislatore. Non sta facendo un investimento in responsabilità dei detenuti. In questo carcere, ad esempio, abbiamo reclusi che hanno già trascorso una parte della pena molto significativa (oltre 20 anni), o stanno scontando anni di fine pena molto lunghi: in alcuni casi hanno degli ergastoli (si tratta di reati gravi, cosiddetti ostativi).

Ma in questo momento il legislatore non ha saputo cogliere il percorso positivo che queste persone hanno compiuto all’interno dell’istituto, anche grazie agli operatori penitenziari, e sono persone che avrebbero potuto dimostrare anche all’esterno il loro senso di responsabilità, sono pronte per essere reinserite nella vita per proseguire la loro esistenza in modo diverso».

In che modo?

«Anche con misure alternative: per esempio con uno speciale affido in prova, o essere utilizzate in parte nei lavori socialmente utili gratuiti per la società, e in parte con un lavoro retribuito che gli consenta il reinserimento e il rientro nelle loro famiglie».

In questo carcere quali tipi di attività svolgono i detenuti?

«Qui abbiamo una realtà molto bella. Ci sono tre laboratori d’altissimo livello, una falegnameria, una calzoleria-pelletteria e un laboratorio di sartoria e di serigrafia e stampa. La nostra intenzione è di aumentare questa produttività, di non produrre più soltanto per l’interno dell’amministrazione ma anche per l’esterno, con commesse private. Un po’ come quello che ci ha permesso di fare la Fillea Cgil, che ci ha dato questa prima possibilità di sperimentarci con la produzione dei gadget per i congressisti che sono stati fatti completamente all’interno dell’istituto».

Piano carceri: sappiamo che molto presto anche questa struttura sarà interessata da un ampliamento. Di cosa si tratta e quanti nuovi detenuti potranno entrarvi?

«L’istituto sta per avviare la costruzione di un nuovo padiglione secondo gli standard europei e dovrebbe ospitare circa 200 nuovi posti detentivi. Ovviamente questi spazi sono studiati in maniera diversa dal passato, con maggiori spazi comuni, percorsi e stanze che rispettino anche la disabilità del detenuto e con un maggiore rispetto della dignità della persona anche quando reclusa».

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