Un polo unico per L'Aquila e Teramo

La proposta di Spinosa: superare i localismi e creare Confindustria Gran Sasso

PESCARA. «Le aree interne, Teramo e L'Aquila, devono ripensare il loro modo di stare in Abruzzo. L'alibi delle zone interne non funziona più, la costa tira come una idrovora prendendo dalle zone interne e non possiamo, né dobbiamo fermare i territori che hanno trovato una loro strada». Il presidente degli industriali aquilani Fabio Spinosa Pingue getta i presupposti per lanciare una proposta che fa già parlare di sè a livello di sanità e della ricerca (università): creare un polo industriale L'Aquila-Teramo che sappia tenere il passo di Chieti e Pescara.

Fabio Spinosa, perché la provincia dell'Aquila e quella di Teramo dovrebbero unire le loro forze anche dal punto di vista imprenditoriale?

«Innanzitutto perché se si opera a compartimenti stagni si amplifica il deleterio campanilismo e si continua a duplicare enti e consorzi per senza che ci siano soldi. Così non si va da nessuna parte, o meglio si va indietro. Bisogna necessariamente ripensare, in questi tempi di vacche magre di finanza pubblica, la presenza dello Stato e degli enti locali sul territorio. Le ristrettezze di finanza pubblica possono farci recuperare venti anni di ritardo. Devono stimolarci a rivedere la nostra struttura pubblica. Questa è una grande opportunità poiché la competitività è legata anche all'improduttività, all'efficacia degli enti locali».

L'Abruzzo secondo lei a che punto sta?

«L'attuale Abruzzo è figlio di un'altra era. Quello dei fiumi di denaro pubblico che arrivavano sul territorio. Un'era che non c'e più né tornerà. Siamo obbligati a rivedere la struttura pubblica, urge riqualificare la spesa pubblica altrimenti assisteremo impotenti allo stillicidio continuo di enti territoriali esausti e senza risorse. Sarà una terrificante agonia, e non troppo lenta».

Non è una visione eccessivamente pessimistica?
«Guardi, il dato di fatto è che l'Abruzzo come un "unicum" e se mai è esistito, oggi di fatto, non esiste più. E in tempi difficili aumenta l'egoismo dei popoli, a livello esponenziale».

Come si fa a venirne fuori?
«Devono emergere le tanti classi dirigenti che pure esistono e maturare uno sforzo culturale nel considerare l'Abruzzo come un "unicum". Ripensare e ridisegnare l'Abruzzo con i limiti della finanza pubblica e con l'opportunità della tecnologia: questa è la sfida. Solo così possiamo pensare di garantire un futuro alla pluralità di territori. Ognuno, in un ottica regionale, rinunciando a qualcosa di improduttivo ed inefficace oppure semplicemente ampliando il raggio d'azione di quello che di buono funziona, potrà ospitare delle eccellenze».

Dai campanilismi ai virtuosi localismi. Lei crede che l'Abruzzo sia ora pronto a fare queste scelte?
«Credo che bisogna essere disposti a perdere qualcosa se si vuole crescere e che sia arrivato il momento di pensare a un Abruzzo come una perfetta area urbana policentrica regionale».

E qui arriviamo alla sua proposta.
«Abbiamo una regione troppo sbilanciata, una regione anfibia. La costa ormai se n'è andata. Chieti parla di quarto polo industriale italiano, del 33% del prodotto interno lordo regionale, Pescara parla da città europea e si sente la vera capitale d'Abruzzo. Insieme vogliono applicare sistemi di rappresentanza esclusivamente democratici dentro tutti gli enti che tengano conto solo e soltanto dei numeri a prescindere dal territorio. In tutti gli ambienti imprenditoriali, commerciali, artigianali, agricolo, partitici, sportivi, culturali, turistici si registrano frizioni troppo forti, non più sostenibili, tra la costa e le aree interne. Del resto l'area metropolitana di circa 400 mila abitanti è una realtà di fatto che solo la politica non riesce ad organizzare».

È un rimprovero?
«È un altro dato di fatto che ci ha portato ad un metro dal rischio dell'equilibrio regionale. Se non ripensiamo il nostro modo di stare in Abruzzo nella costa ci si spostano le persone, le fabbriche e financo le "montagne"».

Dunque?
«Noi, L'Aquila e Teramo, dobbiamo favorire questo processo. Solo noi possiamo farlo perché loro, Chieti e Pescara se ne sono già andati. Noi siamo gente di montagna, più concreti e legati alla terra. Loro hanno una cultura da gente di mare».

Attenzione ai campanilismi.
«È vero, dobbiamo imparare a gestire le differenze. Voglio dire che partendo dai limiti della finanza pubblica e dalle opportunità della tecnologia tutti gli stakeholders delle due comunità devono operare in sinergia, condividere progetti innovativi, creare una nuova governance che possa dialogare e progettare il nuovo Abruzzo con pari dignità con la costa. Dobbiamo eliminare doppioni, carrozzoni, riqualificare la spesa pubblica, potenziare eccellenze, ampliare il raggio d'influenza. Dobbiamo creare un'area forte che può bilanciare l'Abruzzo. E stimolarlo ad una sana competitività al rialzo».

Il ruolo degli imprenditori scavalcherebbe quello dei politici?
«Sta alle forze produttive ed imprenditoriali che quotidianamente solcano i turbolenti mercati nazionali ed internazionali anticipare e contaminare la politica dell'esigenza di mettere insieme le forze, che non necessariamente significa fusione. Ma certamente presuppone fare sistema, sinergizzare, condividere progetti, razionalizzare, il tutto finalizzato non solo all'abbatimento dei costi quanto alla crescita delle eccellenze, per creare nuove opportunità che piccoli territori possono soffocare».

Ha già in mente il nome di questo nuovo polo?
«Si può chiamare Confindustria Gran Sasso. Perché il Gran Sasso unisce i due territori, non li divide».

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