Chieti, alloggi Ater: 9 inquilini imputati

La procura li accusa di false autocertificazioni e truffa. Ma i modelli da compilare sono un rompicapo

CHIETI. Case popolari ottenute tramite scorciatoie, autodichiarazioni mendaci, nel tentativo di sfuggire alle maglie del controllo, oppure errori in buona fede commessi anche a causa di una burocrazia che ingarbuglia tutto e rende difficile al cittadino il voler restare in regola? In poche parole, furbetti o vittime di un errore? È quanto dovrà decidere i gip del tribunale di Chieti sul cui tavolo è arrivato un corposo fascicolo sull’assegnazione delle case popolari dell’Azienda territoriale per l’edilizia residenziale pubblica, l’Ater, parte offesa nell’inchiesta.

La prima udienza, due giorni fa, è stata rinviata al 2 luglio. Il pubblico ministero che si è a occupato dell’inchiesta è Giuseppe Falasca che ha chiesto il rinvio a giudizio per 9 imputati, tutti assegnatari di alloggi Ater. Per tutti gli inquilini i reati vanno dalla truffa nei confronti di un ente pubblico, l’Ater appunto, a quello di falsità ideologica commessa da un privato in un atto pubblico, attraverso la presentazione di autocertificazioni che non corrispondevano al vero. Gli assegnatari di alloggi popolari, infatti, devono consegnare all’Ater dei modelli “anagrafico – reddituale” che attestino che gli inquilini siano ancora in possesso dei requisiti di reddito per avere diritto ad abitare una casa popolare. Pietro Alfredo Maiella, difeso dall’avvocato Manuela D’Arcangelo, secondo le accuse, tutte ancora da dimostrare, «attestava contrariamente al vero la persistenza delle condizioni di reddito presupposto per continuare a beneficiare dell’alloggio». Aveva omesso di inserire nell’autocertificazione altri redditi, come per esempio quello della figlia che viveva con lui. Sommati col suo, i redditi omessi nell’autocertificazione, gli avrebbero forse fatto perdere il diritto di vivere in una casa pensata per persone che si trovano in condizioni economiche di bisogno.

Anche Francesco Piazza, difeso dall’avvocato Antonio Sergio Scampoli, si è dimenticato di inserire nel modello il reddito percepito dal figlio. Nella sua autocertificazione, inoltre, non c’è neanche traccia dell’immobile di otto vani di cui la compagna era proprietaria. “Dimenticanze” che per il pm pesano. Come quella di Massimo Basti, difeso dalla D’Arcangelo, per cui invece a far problema è il reddito del fratello convivente non dichiarato, oltre al fatto che, sempre insieme al fratello, era proprietario di altri immobili.

Anche per Sergio Bolognese, assistito dal legale Tina Di Girolamo, il problema sono stati i redditi del figlio a cui non si fa accenno alcuno nelle autocertificazioni. E sempre i redditi del figlio hanno portato davanti al gip anche Alberico Capone, difeso dall’avvocato Mauro Faiulli. Stesso caso, con in più anche i redditi percepiti della compagna convivente, per Alessandro Casarin, assistito sempre dalla D’Arcangelo. Maria De Amicis, difesa dall’avvocato Katia Ferrarini, avrebbe invece omesso di dire nella compilazione del modello che era comproprietaria al 50% di un altro immobile di sei vani e mezzo. Anche Gabriele Di Muzio, assistito dall’avvocato Nello D’Angelo, aveva dimenticato di scrivere che era proprietario insieme alla moglie di un altro immobile. Gabriele Sbraccia, difeso sempre dalla D’Arcangelo, dimenticava di dire di essere titolare del diritto di un usufrutto di un immobile.

Dimenticanze vere o ad arte? Per l’accusa ovviamente gli imputati hanno «tratto in inganno i funzionari preposti con artifici e raggiri», conseguendo «un ingiusto profitto nella permanenza nell’alloggio Ater». C’è da dire, però, che le autodichiarazioni vengono rilasciate attraverso modelli oggettivamente complicati da riempire. Che possono anche indurre in errore.