Chieti, la crisi alla SixtyL'appello dei dipendenti "Bisogna intervenire"

Gli operai dell'azienda della moda si sfogano e chiedono l’aiuto delle istituzioni. Prevista la cassa integrazione per 300 dipendentie il piano aziendale prevede in due anni e mezzo l’organico sarà ridotto, 200 gli esuberi

CHIETI. «Con noi muore il made in Italy». E' lo sfogo amaro dei dipendenti della Sixty, che portano avanti una vertenza nel silenzio. Per l'azienda di moda sono giorni davvero difficili. Ha avviato cassa integrazione ordinaria a rotazione su otto settimane, che potrebbe coinvolgere fino a 300 dei 480 dipendenti. Un ammortizzatore sociale che si aggiunge agli altri già attivati, come la cassa integrazione straordinaria, il contratto di solidarietà e la mobilità volontaria. Il piano industriale, poi, prevede 200 esuberi nei prossimi due anni e mezzo. Una situazione complicata.

In una vallata industriale decimata, questo potrebbe essere il segnale di una desertificazione senza ritorno. L'azienda di moda arruola tanti giovani intorno ai 30 anni e diverse donne.

«Abbiamo paura di parlare», confessa un dipendente, «con un nonnulla possiamo finire tra i 200 che vanno via e sarebbe la fine».
"Per noi trovare nuova occupazione», aggiunge una ragazza, «è difficile. Abbiamo specializzazioni spendibili solo nel campo della moda e qui intorno non c'è offerta».

«Nello stabilimento», raccontano, «dopo il trasferimento della produzione all'estero, sono rimasti reparti di modellistica, prototipìa, marketing. In pratica tutto ciò che serve per trasformare le idee degli stilisti in merce spendibile sul mercato. Se trasferiamo all'estero anche questo, cosa rimarra?».

Con loro rischia di morire il vero Made in Italy.

«La soluzione dei licenziamenti è diventata l'unica praticabile», dicono, «non è però che il mercato sta bocciando proprio questo? Se tutto si fa all'estero, dov'è il vero Made in Italy? Forse quello "taroccato" non piace, per questo le vendite crollano».

I dipendenti chiedono l'aiuto delle istituzioni, se c'è un progetto di reindustrializzazione che possa ripescarli. Sono pronti anche a mettere da parte le proprie competenze. Non la regione in cui vivono, ma solo perché fuori non ci sono prospettive migliori. In diversi, durante questi anni, quando già l'aria di crisi soffiava in azienda, hanno bussato altrove. Hanno trovato solo contratti più vessatori e prospettive retributive mortificanti. Allora a cosa servirebbe andare fuori? Il presidente della Provincia, Enrico Di Giuseppantonio, così come l'assessore comunale alle attività produttive, Antonio Viola, hanno detto di volere avviare al più presto un tavolo di confronto.

«Lo facciano subito», dicono i lavoratori, «arrivino fino al Governo».

I sindacati aspettano di essere riconvocati dall'azienda per il confronto sul piano industriale. «L'attenzione su questa vertenza», dice Alessandro Azzola della Uil, «deve essere massima. Proporrei una manifestazione regionale per il tessile e abbigliamento. Poi una provocazione. Organizziamo corsi di riqualificazione per gli alti dirigenti Sixty, perché studino alternative valide sul rilancio, che non siano solo prospettive di nuovi licenziamenti».

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