Chieti proclamata città aperta: 70 anni fa finiva la guerra

Il 24 marzo del 1944 fu il giorno più bello, centotrentamila anime salve grazie a monsignor Venturi

CHIETI. «Nella città di Chieti non si trovano, eccetto ospedali militari ed il Comando locale, truppe tedesche. Il Comando tedesco non collocherà nella città proprie truppe, finché il nemico rispetterà la sua condizione di città aperta. Il Comando tedesco, però, deve riservarsi il diritto di passaggio per le truppe attraverso la città di Chieti. La stessa dichiarazione sarà trasmessa, a mezzo dell'Ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, al Segretario di Stato di Sua Santità. Firmato: Feurstein, Generale delle truppe di zona». Così decreta, sotto la data del 21 marzo 1944, Valentin Feurstein, comandante del 51' Corpo delle truppe di Montagna, responsabile delle operazioni militari germaniche nella zona del teatino. Il messaggio, diretto "al Signor Arcivescovo di Chieti", è consegnato all'amatissimo presule, dal comandante del presidio di Chieti, maggiore Heinz Fuchs, il 25 marzo.

Il giorno prima, al circolare delle prime indiscrezioni provenienti da ambienti vaticani, la Curia dispone l'affissione di un "avviso sacro" col quale è indetto, per la domenica successiva, il "Te Deum" in cattedrale "per ringraziare il Signore del grande beneficio concesso alla Citta di Chieti dichiarata ufficialmente Città Aperta forse unica in Italia con tutte le benefiche conseguenze di legge". La firma sul manifesto è quella di "Giuseppe, Arcivescovo". La data è quella del 24 marzo 1944, venerdì: il giorno più lungo, quello più bello, della storia contemporanea del capoluogo e delle sue (all'epoca) 130 mila anime, tra abitanti originari ed acquisiti.

Una moltitudine di residenti e profughi strettasi ad un gigante della Chiesa, l'allora settantenne Giuseppe Venturi. Sin dall'insediamento in città dei funzionari della Repubblica Sociale coordinati per l'occasione da Giuseppe Caruso, poi questore di Roma, giustiziato il 22 settembre 44 poiché ritenuto corresponsabile dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, l'arcivescovo Venturi cerca di mediare con le autorità italiane e tedesche condizioni di favore per le migliaia di sfollati che si spostano dalla zone del fronte (la linea del Trigno) verso la costa. Siamo nel settembre del 1943. L'8 l'Italia esce a pezzi dall'armistizio firmato a Cassibile.

Nella notte fra il 10 e l'11 il Re ed i suoi dignitari si imbarcano da Ortona, destinazione Brindisi, sulla nave Baionetta. La Patria è allo sbando. Il 12 Benito Mussolini è liberato dai paracadutisti del maggiore Morse dal confino di Campo Imperatore. Gli alleati avanzano, i tedeschi si insediano, gli italiani scontano lutti e distruzioni. Chi può fugge. Chi acquista coraggio resiste.

É la logica della guerra. Ed a Chieti l'arcivescovo Venturi si industria. Inginocchiandosi come il buon pastore per recuperare le sue pecorelle dal dirupo della disperazione. Di fronte alle "lunghe teorie di donne scalze che si avviano randagie verso ignota destinazione con pesanti fardelli sul capo ed i bambini aggrappati ai fianchi, sotto l'imperversare della neve, della pioggia, del vento" (così lo stesso generale Feurstein in un colloquio con Venturi riportato da Angelo Meloni nel suo celebre "Chieti Città Aperta", Pescara 1947), l'arcivescovo teatino cerca ogni utile soluzione e si reca a Roma per perorare, direttamente presso Pio XII, la causa del capoluogo teatino quale centro di naturale accoglienza delle popolazioni sbandate dell'intera provincia. Il 21 dicembre 43 Venturi, accompagnato dal vicario generale monsignor Falcucci, è ricevuto da Pio XII che, commosso, gli assicura solidarietà ed appoggio. Seguiranno altri contatti per evitare ripetuti ordini di evacuazione della città, per stabilire utili intese con il feldmaresciallo Albert Kesselring grazie ai buoni voti di personalità eminenti del Vaticano, come il segretario di stato Luigi Maglione ed il superiore generale dei Salvatoriani padre Pancrazio Pfeiffer.

Contatti che Venturi affida anche a suoi fidati e stretti collaboratori locali: il podestà Alberto Gasbarri col suo vice Giuseppe Florio; il futuro presidente della Cassa di Risparmio, Amedeo Faggiotto, ed il direttore generale dello stesso istituto di credito Mario Castellani; il parroco della chiesa cattedrale, monsignor Eugenio Muffo.

Faggiotto e Castellani godono, addirittura, delle credenziali di plenipotenziari papali, segno della riconoscenza di Venturi per il fattivo ruolo rivestito dalla banca teatina a sostegno dell'economia locale e delle migliaia di profughi. Vaticano, Terzo Reich, RSI: una fitta tela di intese diplomatiche, intuizioni personali ma anche di mille criticità. Come quando Venturi, invitato dai tedeschi a lasciare Chieti in previsione dei cannoneggiamenti alleati, risponde: "Qui mi ha mandato il Papa e senza il suo ordine non mi muoverò". Od anche quando il presule media con i tedeschi la liberazione di tanti giovani patrioti riuscendo ad evitare, a molti di essi, il plotone di esecuzione. Poi quel 24 marzo del 44 arriva la grazia.

Chieti Città Aperta, una 'enclave' di relativa pace che evita all'Abruzzo, dopo quella di Ortona, una seconda, piccola Stalingrado. Alla dichiarazione del suo prezioso status mancò l'adesione formale dei comandi Alleati. «Ma Chieti», dice Max Franceschelli, giornalista e scrittore, «la qualifica di Città Aperta la guadagnò nella riconoscenza delle migliaia di sfollati e nelle gesta dei suoi uomini migliori come Giuseppe Venturi».

Franceschelli, figlio d'arte di Fabrizio e di Anna Maria Cavasinni, registi e ricercatori di storia patria, nel suo "Chieti Città Aperta" (e DiCola, 2007), supera le questioni burocratiche per consegnare alla storia, proprio come fece Angelo Meloni nell'omonima opera del 1947, l'affresco di una città intrisa dei valori dell'accoglienza. Accadde 70 anni fa, il 24 marzo 1944, venerdì.

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