Il caso Bussi, ricorso collettivo a Chieti per l’acqua avvelenata

Dopo le 5 condanne dell’Aca dovute allo stress causato agli utenti annunciata una valanga di istanze: gli utenti sono 700mila

CHIETI. Parte il ricorso collettivo contro l’Aca dopo le sentenze con cinque condanne per l’acqua avvelenata proveniente da Bussi. Lo annuncia l’avvocato Vittorio Ruggieri, vicepresidente dell’associazione Codacons Abruzzo. Nei giorni scorsi l’Azienda consortile acquedottistica, nella persona del presidente pro-tempore, Vincenzo Baldassarre, è stata condannata dal giudice di pace di Chieti a pagare 5mila euro a ciascuno dei ricorrenti che si sono rivolti proprio al Codacons, sodalizio che tutela i consumatori. In buona sostanza, il giudice Mariaflora Di Giovanni, ha sostenuto che l’Aca, con l’acqua proveniente da Fonte Giardino di Bussi e mescolata con quella dei pozzi Sant’Angelo, ha violato il diritto alla salute dei cittadini distribuendo acqua avvelenata o corrotta dal 2004 al 2007, procurando agli utenti una condizione di forte stress quando questi ne sono venuti a conoscenza.

I maxi risarcimenti. Ma il numero delle persone che possono ottenere lo stesso risarcimento dei danni, definiti “non patrimoniali”, come sostenuto già dal Centro nei giorni scorsi, non si limita ai cinque ricorrenti, tutti assistiti oltre che dall’avvocato Ruggieri anche da Rodolfo e Ludovico Berti di Ancona, ma sono circa di 700mila residenti in trenta Comuni, tra cui spiccano, oltre a quelli della Val Pescara, anche Chieti, Pescara, Francavilla, Silvi, Montesilvano e Città Sant’Angelo. Una sentenza che potrebbe mandare ko l’Azienda consortile acquedottistica visto che la somma dell’eventuale risarcimento collettivo ammonterebbe a 3 miliardi e mezzo di euro.

Le sentenze-pilota. Il Codacons, quindi, si prepara a un nuovo ricorso estendendo la sentenza a tutte le persone che, in qualche modo, avrebbero sofferto stress e patema d’animo per avere bevuto quell’acqua e che il giudice ha ritenuto opportuno quantificare in risarcimenti da 5mila euro l’uno. Quelle sentenze sono definite “pilota” e “apripista” visto che gli unici precedenti riguardano la Cassazione sul caso Icmesa e il Tar Lazio per la somministrazione di acqua avvelenata in alcuni comuni laziali.

La restituzione dei canoni idrici. Quindi, quello del giudice di Chieti si pone come terzo precedente giurisprudenziale in Italia che in qualche modo va a sanzionare l’inadempimento contrattuale dell’Aca e la somministrazione di acqua considerata adulterata. Tra l’altro, il Codacons sta studiando la possibilità di lanciare un ulteriore ricorso per chiedere la restituzione dei canoni idrici delle bollette pagate perché scatterebbe il diritto dell’utente di non pagare per inadempimento contrattuale.

L’eventuale appello. «Ci rendiamo conto che abbiamo vinto soltanto una battaglia», sostiene l’avvocato Ruggieri, «perché sicuramente l’Aca appellerà le sentenze del giudice di pace. In ogni caso riteniamo queste sentenze in qualche modo paradigmatiche in quanto statuiscono il sacrosanto principio che in caso di inadempimento contrattuale anche il patema d’animo sofferto dall’utente va risarcito».

La motivazione. Il giudice di pace sostiene che «l’Aca spa era a conoscenza dal 2004 che nel campo pozzo di Colle Sant’Angelo alcuni pozzi risultavano altamente inquinati e nonostante ciò non diffondeva l’allarme ai consumatori e tranquillizzava in modo irresponsabile l’Arta e la Asl». Ma per la Di Giovanni l’Aca fece anche di peggio: per abbassare il livello di inquinamento dell’acqua, che usciva dai rubinetti di casa, miscelò l’acqua di Bussi con quella pura dell’acquedotto del Giardino, «così somministrando acque corrotte, se non avvelenate, all’intero bacino d’utenza costituito da circa 700mila persone».

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