Il padre morì nei campi 40 anni fa

Agricoltore ucciso in contrada San Martino a Chieti, i vicini: anni fa nella sua casa gli zingari andavano a rubare le galline

CHIETI. «Nel 1973 il padre Nicola fu trovato morto nei campi». La notizia di Gino ucciso dai ladri passa di casa in casa. Vicini e parenti raccontano la storia di quella casa. Dove Gino Mincone, soprannominato «Giggino lu bambine» viveva da solo, dalla morte della madre Anna Cellini.

«Non ne voleva sapere di andarsene da lì, di andare a vivere con i parenti», dice una donna. In via dei Mille sono circa le 9 del mattino. Agosto, sia pure per l'ultima volta, dopo un'alba fredda, si ricorda si essere un mese estivo e il caldo si fa intenso. I vicini arrivano davanti al cancello dell'abitazione dove da poche ore qualcuno, per qualche bottiglia d'olio, ha ucciso Giggino. Si scambiano ricordi e fanno considerazioni di rito. «Qui non si può andare più avanti. Non si può stare più tranquilli».

Raccontano di quando il corpo di Nicola Mincone, padre di Gino, agricoltore conosciuto e stimato, circa 40 anni fa, fu trovato senza vita nei campi. Quando i due cani, pastori abruzzesi, vennero uccisi. Si sospettò di un cacciatore che li avrebbe avvelenati per essere stato aggredito dal più vecchio.

«Ma che volevano i ladri?», dice una donna, «lì non c'era proprio niente». Gigino si accontentava dell'essenziale, della pensione, di quel poco d'olio che produceva, nella sua serena solitudine. Quando viveva con i genitori e poi con la madre, i campi erano coltivati, i vitigni, ora abbandonati, rigogliosi. Nelle stalle, spesso meta di razzie degli zingari, c'erano le galline, i conigli. «Oggi gli zingari non vengono più...». «Ci andavano sempre per rubarsi le galline». «Stamattina non riesco a fare più niente», dice Teresa, un'altra vicina di casa, addolorata dalla notizia della morte di Giggino, «ho lavorato per tanto tempo nei campi della famiglia Mincone, per cogliere le olive», aggiunge, «era una persona buona, amica di tutti. Ma voleva vivere da solo». E non c'era da biasimarlo, in un angolo dove il superbo panorama, l'ambiente silenzioso dal verde delle campagne, delle viti, compensano con lo stato di una abitazione malandata, frutto di una libera trascuratezza, dove c'è un abbozzo di cucina, un bagno malconcio, una porta apribile con la spallata di un bambino. Vista da dietro la casa mostra uno squarcio impressionante.

Ma a Gino piaceva così. «La sorella Gilda», dice il Ennio Peca, la cui madre è cugina carnale dei fratelli Mincone, «ha insistito un migliaio di volte per averlo con sé nella sua casa, ma non c'è stato niente da fare, sempre indipendente, non chiedeva mai aiuto. Quando si sentiva male andava all'ospedale da solo, senza mai disturbare nessuno». Ma Gino Mincone, al di là degli acciacchi senili, aveva una vita sociale vivace. E parenti e vicini, dimenticata per qualche minuto la tragedia, trovano lo spazio per ricordare, quasi divertiti, i suoi curiosi comportamenti. Amava andare alla stazione di Pescara dove si vedeva con gli amici e non usava quasi mai la macchina. «Ne ha cambiate diverse», dice ancora una donna, «ma preferiva salire sul trattore con il quale arrivava fino giù, per prendere l'autobus». Era un appassionato di mezzi agricoli, anche se non nuovi. Una volta ne collezionava diversi. Un trattore domina davanti la corte, sotto un albero.

Gino Mincone oltre alla sorella lascia anche due nipoti. Sergio, che ha un megozio di computer a Dragonara, è tra i primi ad arrivare nella abitazione. E' costernato, silenzioso. Entra e esce dalla casa. Riconosce il corpo dello zio. Ora senza vita. Esce di casa e a bassa voce, a qualche vicino che gli domanda quando si faranno i funerali dice: «Per ora non ce lo ridanno. I carabinieri mi hanno detto che è a disposizione del magistrato. Forse giovedì. Vedremo».

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