Dall'Abruzzo al Canada, "la terra delle opportunità"

Alberto Di Giovanni, partito a soli 17 anni da Roccamorice, racconta la sua esperienza di italo-canadese

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Il libro si intitola “Italo-canadesi:Nationality and citizenship” e l’autore, Alberto Di Giovanni, 69 anni di roccamorice, emigrato in Canada all’età di 17 anni, lo ha presentato ieri a Pescara, nella sala Figlia di Iorio del palazzo della Provincia, insieme con Antonio Di Marco, presidente della Provincia, Errico Centofanti, scrittore, autore della prefazione al volume (edito da Guernica) ed Enzo Fimiani, direttore della Biblioteca provinciale che ha organizzato l’incontro. Pubblichiamo due estratti del primo capitolo del libro,intitolato ”Le due Patrie”.

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di ALBERTO DI GIOVANNI

L’emigrazione italiana tra Ottocento e Novecento costituisce un grandioso e drammatico fenomeno di cui è stata protagonista una moltitudine, stimata nell’ordine di venticinque milioni di persone, che ha avuto come meta quasi tutti i Paesi dell’Europa nord-occidentale e del resto del mondo e specialmente il Nord e il Sud dell’America e l’Australia. Non sono molti, in Italia come altrove, coloro che dispongono di una reale conoscenza di quel fenomeno. Nell’immaginario di chi ha vaghe nozioni, sussistono due fondamentali icone, quasi sempre incorniciate da una mitologia fin troppo suggestiva: c’è la Statua della Libertà, che saluta e forse benedice l’arrivo a New York dei bastimenti carichi di aspiranti immigranti, e poi c’è Ellis Island, il centro di selezione e smistamento verso le destinazioni sulla Terra Promessa, che non di rado era pure l’anticamera del respingimento per i non graditi. Quanto al Canada, gli approdi dei migranti hanno avuto aspetti meno romantici e per di piú non meno problematici, non meno dolorosi, non meno umilianti. Si arrivava in nave a Halifax e da lí si proseguiva verso Montréal o Toronto, in treno, su vagoni e con trattamenti da carri-bestiame. Io fui in qualche modo un privilegiato: arrivai a Toronto in aereo, dopo aver fatto scalo a Montréal.

Era una sera dell’inizio d’Aprile del 1963. Avevo 17 anni e venivo da Roccamorice, un antichissimo piccolo borgo abbarbicato sulle montagne costiere dell’Abruzzo. Tutto quel che sapevo dell’ignoto Paese in cui approdavo era che i miei genitori e alcuni dei miei fratelli stavano lí e che il Canada era un territorio sconfinato, del quale si diceva che fosse la “terra delle opportunità”. Il mio non fu un impatto traumatico con la nuova realtà in cui ero approdato.

Non ero arrivato senza punti di riferimento, come la maggior parte di quelli che mi avevano preceduto, e non provavo eccessivamente la sensazione di spaesamento, tipica degli immigrati. Ero pervaso dalla sensazione di avere di fronte un avvenire entusiasmante e avevo l’appoggio della famiglia, già da anni insediata a Toronto: per me la nostalgia della madrepatria non fu un problema. In realtà, non ho mai avuto tempo per lasciarmi prendere dalla nostalgia, se non per poco, giusto all’inizio. Del resto, già dopo il quinto anno di permanenza in Canada ebbero inizio i frequenti viaggi in Italia grazie ai quali s’è mantenuto ben vivo quel mio strettissimo legame con la madrepatria che ha caratterizzato l’intero corso della mia vita. Il primo impulso fu ovviamente quello della socializzazione. La comunità italiana, sebbene alquanto disorganizzata rispetto a gran parte delle altre componenti etniche, aveva saputo dotarsi di diverse strutture abbastanza valide, tra le quali emergevano circoli e altri tipi di ritrovi dove si parlavano l’italiano e una vasta gamma di dialetti regionali.

Quel che mi apparve piuttosto strano fu il primo impatto conb la Chiesa Cattolica. Io venivo da un’esperienza assai diversa: in Italia c’era una larga insofferenza per usanze e mentalità considerate d’altri tempi, si leggevano gli effervescenti libri provenienti dagli ambienti cattolici di Francia, si ragionava sul fenomeno dei preti-operai, si sviluppava un’animata ricerca di innovazioni, emergeva una poderosa spinta verso riforme incisive, tanto che di quel fervore apparvero conseguenze naturali, anche se comunque rivoluzionarie, la promulgazione dell’enciclica Mater et Magistra e l’indizione del Concilio Vaticano II. In Canada, invece, niente del genere: tutto era quieto e rigorosamente tradizionalista. (...)

Quello del mio arrivo a Toronto era un periodo di transizione nell’evoluzione della nazione canadese. Arrivavo in un Paese anglofono, molto chiuso, con qualche residuo di bigottismo. A noi italiani ci chiamavano “wop”, un termine evidentemente spregiativo che immagino volesse significare “gli sconfitti”, equivalendo esso all’oxfordiano “to whop”, cioè “sconfiggere”. Il Primo Ministro Lester Pearson stava guidando la fuoriuscita da quella fase retrograda. Per me, le prime due necessità erano lavorare e imparare l’inglese. Senza di che non avrei potuto proseguire gli studi all’università, che era l’obiettivo strategico. Il primo impiego fu da Mario’s Spaghetti House, come lavapiatti. Feci carriera, sopra tutto perché andavo imparando velocemente l’inglese, e venni promosso cameriere. Mario’s Spaghetti House fu la mia Statua della Libertà: lí, Toronto salutò e forse benedisse il mio arrivo, perché la Spaghetti House significava lavoro e prospettive sorridenti. Dismessa la giacca da cameriere, passai a tutt’altro genere di divise, trovando lavoro in una fabbrica di divise per l’esercito, dove ero pulitore delle macchine per cucire e anche aiuto meccanico.

Nelle fabbriche e nelle costruzioni c’erano molti problemi, sia per le difficoltà della lingua sia per la durezza dei rapporti gerarchici, ma c’era anche una forte solidarietà tra gli immigrati, qualunque fosse il Paese di provenienza. Poi, per me venne la volta dell’impiego in una banca e lí era ben visibile e oppressivo l’atteggiamento insofferente e spesso altezzoso dei “wasp”, i “White Anglo- Saxon Protestant”, che consideravano se stessi come il fior fiore della razza umana. A quel punto, mentre lavoravo in banca, nacque prepotentemente l’esigenza di frequentare l’università, che avrebbe significato non solo l’accesso a una formazione intellettuale d’eccellenza ma anche l’acquisizione di una padronanza della lingua e di una disinvoltura comportamentale tali da rimuovere ogni sensazione di inferiorità. Per me, la familiarità con l’inglese era ormai tale da consentire la sospirata iscrizione all’università.

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