l'intervista

«Il mio amore per il teatro è nato al Tsa»

L’attrice Piera Degli Esposti, madrina del Premio Di Venanzo a Teramo, si racconta: «Con Calenda e Cobelli la mia formazione sulla scena all’Aquila. Oggi amo anche le fiction in tv»

di Anna Fusaro

«Vedo arrivare la poltrona. Questo fa presagire che andremo per le lunghe». Spiritosa come sempre, dopo una lunga teoria di ospiti minori, Piera Degli Esposti si è accomodata sul bracciolo della bergère, sull'altro la conduttrice Chiara Giallonardo, e dal palcoscenico ha raccontato il mestiere di attrice al pubblico del Teatro Comunale teramano. La grande interprete, che fece dire a Eduardo De Filippo, dopo averla vista recitare nel joyciano "Molly cara", «Questa è 'o verbo nuovo», è stata la madrina sabato scorso della serata conclusiva del 21° Premio internazionale Gianni Di Venanzo per la fotografia cinematografica, invitata dall'associazione culturale Teramo Nostra.

Prima di raggiungere il teatro Piera Degli Esposti, artista eclettica dai molti talenti (attrice, scrittrice, sceneggiatrice, regista di opere liriche) ha chiacchierato con il Centro, partendo dal legame professionale e affettivo con la nostra regione.

«Vengo speso in Abruzzo, in estate vado sempre a Pescasseroli, nella casa di Dacia Maraini. Ma innanzitutto sono legata all'Abruzzo per il teatro. Antonio Calenda, col quale avevo esordito nel Teatro dei 101, chiamò me e Gigi Proietti alla fine degli anni Sessanta a lavorare nel Teatro Stabile dell'Aquila. Devo molto a Calenda, regista che mi ha lanciato come prima attrice. Fu un mio innamorato, non corrisposto, a suggerirmi a Calenda ai tempi del 101. "Lo faresti un uomo?", mi chiese. Feci quel ruolo e da lì iniziò tutto».

«Col Tsa il primo spettacolo fu "Operetta" di Gombrowicz, un lavoro per me fondamentale. Feci poi l'indimenticabile "Orestiade", al Castello, in cui avevo due parti, Cassandra ed Elettra. Lo Stabile aquilano generosamente puntò su un'attrice giovane, quando tutti i teatri puntavano sui maschi, Tino Carraro al Piccolo di Milano, Alberto Lionello a Genova, Turi Ferro a Catania. Sono grata a personaggi come Centofanti, Fabiani, Giampaola (fondatori del Tsa, ndr), alla grande fortuna di conoscere questi uomini. La cosa curiosa è che, proprio quando, anni dopo, io andavo via dall'Aquila, rimpiangendo gli anni della mia formazione e accettazione come attrice, Dacia comprava la casa di Pescasseroli e questo mi ha permesso di tornare spesso in Abruzzo».

Nel Tsa, oltre a Calenda, ha lavorato con Trionfo e Cobelli. Con chi si è trovata più in sintonia?

«Naturalmente Calenda. Lui è stato un destino. Mi diede questa grande opportunità in un momento in cui non mi voleva nessuno. Ero stata bocciata all'Accademia, venivo bocciata ai provini... ho vinto l'Oscar della bocciatura. Invece la coraggiosissima città dell'Aquila e Calenda si fidarono di quella ragazza. Ma sono rimasta legata, per i ruoli, anche a Cobelli, che a 28 anni mi fece interpretare una centenaria ne "La pazza di Chaillot", e poi "Antonio e Cleopatra" e "La figlia di Iorio", che fu uno scandalo, lo spettacolo veniva visto come una dissacrazione di Gabriele d'Annunzio. Di me si diceva che ero troppo d'avanguardia, il Vittoriale impose un titolo diverso, "Prova per la messa in scena della Figlia di Iorio". Dopo la prima all'Argentina, però, vennero a farmi i complimenti: "Lei sarebbe piaciuta molto al Comandante"».

Va a teatro? Cosa le piace?

«Vado a teatro, ma è molto diverso. Noi eravamo per la ricerca. Penso a tutta l'avanguardia romana, di cui sono onorata di far parte. Perla Peragallo, Leo De Berardinis, Giancarlo Nanni, Carmelo Bene, Simone Carella, morto proprio qualche giorno fa (il 28 settembre, ndr), Giuliano Vasilicò. Siamo le facce di quel teatro, le facce della ricerca. Ora è un tempo in cui attori e attrici s'infischiano della ricerca, desiderano solo essere subito popolari».

A proposito di popolarità, lei è diventata molto popolare per il grosso pubblico nell'ultimo decennio con le fiction televisive, da "Diritto di difesa" a "Tutti pazzi per amore" a "Una grande famiglia".

«E "Atelier Fontana", in cui ho interpretato la principessa Caetani, scopritrice del talento delle sorelle Fontana. Micol Fontana, che veniva sempre a vedermi a teatro, fu felicissima quando ebbi quella parte. Forse prima la televisione aveva paura di me, l'attrice impegnata, alternativa, estrema. Con "Diritto di difesa" si è invece percepita una mia fisionomia simpatica televisivamente. Amo fare la televisione quando è di qualità, grazie anche a registi bravi come Riccardo Milani. Mi piace entrare nelle case, mi sembra di essere coi miei parenti a Bologna. La popolarità fa piacere, ma non deve essere una mania. È una forma affettuosa di contatto con il pubblico».

Rimane il cinema il primo amore?

«Io desideravo fare ricerca, ma il teatro non mi voleva. E allora ho debuttato al cinema, i fratelli Taviani, Pasolini, Zampa. Dal cinema ho avuto moltissime soddisfazioni. Un grande regista come Marco Ferreri ha portato al cinema "Storia di Piera", il mio romanzo scritto insieme a Dacia Mariani».

«Per il teatro ho avuto riconoscimenti come il Premio Ubu e il Duse, ma il cinema mi ha ricompensato con una pioggia di premi. Il Flaiano, ricevuto a Pescara nel 2002 per "L'ora di religione", mi ha portato fortuna perché subito dopo ho vinto il David di Donatello, sempre per il film di Marco Bellocchio. Ho rivinto il David per il ruolo di Enea ne "Il divo" di Paolo Sorrentino. E il Globo d'oro, e tre volte il Nastro d'argento. Al Festival di Cannes la mia scena con Sergio Castellitto ne "L'ora di religione" fu applaudita a lungo durante la proiezione, mi dissero poi che raramente i francesi applaudono un'attrice non francese».

Cosa sapeva di Enea, la misteriosa segretaria di Giulio Andreotti? Come si è preparata al personaggio per "Il divo"?

«Non sapevo niente di lei. Anni dopo ho conosciuto la figlia. Lavoro sempre molto sui personaggi. Appena scesa dalla roulotte per andare sul set, Toni Servillo mi guardò e disse: "Ma sei già entrata nel mondo democristiano!". Alla fine sembravo proprio lei».

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