LA MUSICA COME SOLLIEVO PER IL CUORE ASSETATO

È appena uscito il nuovo libro di Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, su La musica e la bellezza di Dio (Queriniana, Brescia). Dopo aver presentato la musica come possibile voce della nostalgia...

È appena uscito il nuovo libro di Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, su La musica e la bellezza di Dio (Queriniana, Brescia). Dopo aver presentato la musica come possibile voce della nostalgia del Totalmente Altro, la riflessione tocca il situarsi fra la Parola e il Silenzio di Dio dell’esperienza musicale da Lui ispirata e a Lui rivolta (cap. 2, di cui si riportano di seguito alcuni passaggi). Viene quindi approfondito il rapporto fra la musica e il sacro, per richiamare successivamente alcuni esempi dell’incontro tra teologia e musica e dedicare un capitolo finale al rapporto fra canto, musica e liturgia.
* * *Il canto nasce da un cuore che ama. Questo cuore è spesso ferito: intervallo fra due silenzi, la musica e il canto rivolti all’Eterno sono come la voce di questa ferita d’amore, che ringraziando esprime la nostalgia struggente del Volto nascosto. La stessa attribuzione dei Salmi al re David, l’Amato da Dio, illumina l’intrinseca finalità del canto e della musica sacra: essi nascono dall’amore all’Eterno e dal bisogno di essere aiutati da Lui nel sopportare l’attesa dell’incontro. Il primo scopo è talmente pregnante che una tradizione rabbinica descrive così la genesi dei canti del Salterio: quando David va a coricarsi, appende la cetra accanto al letto e, durante la notte, il Signore manda il vento del Nord ad agitarne le corde, affinché quel suono risvegli il Re e gli ricordi di cantare le sue canzoni d’amore all’Altissimo. È tenera e commovente quest’immagine di un Dio che sente così intensamente il bisogno del canto d’amore della Sua creatura, da sollecitarlo Lui stesso. L’altro scopo dei Salmi è indicato già dal racconto che riferisce la causa per cui David fu chiamato dal re Saul a suonare e cantare: il re è agitato a causa delle colpe che ha commesso e si dibatte nella lotta con l’Avversario, che ha preso possesso del suo cuore. In questo contesto drammatico sono solo la musica e il canto del giovane David a dargli un po’ di sollievo e di pace: «Quando dunque lo spirito di Dio era su Saul, Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui» (1 Sam 16,23). La musica ha dunque una funzione terapeutica, è come una medicina dell’anima che, aprendo il cuore al desiderio, alla supplica e alla lode di Dio, aiuta a liberarsi dalle forze del male che ci assalgono. Proprio così David e i suoi canti prefigurano l’opera liberatrice e salvifica del Messia, tanto che il libro degli Atti degli Apostoli non esita ad affermare: «Poiché (David) era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendente, previde la risurrezione di Cristo e ne parlò» (At 2,30s). Peraltro, le ultime parole di David esprimono la convinzione di quest’attesa messianica: «Oracolo di Davide, figlio di Iesse, oracolo dell’uomo innalzato dall’Altissimo, del consacrato del Dio di Giacobbe, del soave salmista d’Israele. Lo spirito del Signore parla in me, la sua parola è sulla mia lingua…Non farà dunque germogliare quanto mi salva e quanto mi diletta?» (2 Sam 23,1s. 5).
Per fare un esempio della bellezza e profondità racchiusa nei Salmi, in cui la lode e la supplica si intrecciano dando voce all’universale nostalgia dell’Eterno, basti ricordare la sezione del Salterio (dal 120 al 134), che reca per ognuna delle composizioni la dizione ebraica Shir hamma’alot - Salmi delle ascensioni. Per alcuni quest’espressione si riferisce alla struttura delle composizioni, orientate in un crescendo verso un vertice tematico (ad esempio, nel Salmo 121: «Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode d’Israele. Il Signore è il tuo custode, il Signore è la tua ombra e sta alla tua destra»: vv. 4 e 5). Per altri, si tratta dei canti eseguiti mentre si salivano i gradini del tempio: “cantica graduum”, come si diceva in latino, “cantici dei gradini”. Poiché però in Esdra (2,1) e in Neemia (7,6) gli esiliati che ritornano a Sion dall’esilio babilonese vengono chiamati “quelli che salgono”, con riferimento all’altitudine della Città santa, questi Salmi vengono normalmente considerati i canti del pellegrino che “sale” a Gerusalemme, che vive il “ritorno” o la “salita” (‘aljah) verso il luogo santo scelto da Dio. «Tutti questi canti - scrive il grande Commentatore ebreo medioevale David Kimchi (ca. 1160-1235) - riportano le parole degli esiliati. In essi si parla dell’angustia dell’esilio e anche della speranza nella salvezza e della certezza che essa infine giungerà». Proprio così, i canti delle ascensioni divengono metafora universale della vita, del cammino dell’uomo, cioè, verso la Città celeste dov’è la vera dimora e patria di ciascuno di noi. L’ascendere fisicamente, peraltro, si presta facilmente ad essere colto come simbolo dell’ascensione a Dio, cui tutti siamo chiamati: vivere è “anelare alla vita eterna” (Miguel de Unamuno), desiderare Dio e la comunione con Lui al di sopra di tutto. Colui che ci ha fatti per sé, attira a sé il nostro cuore inquieto: «Ci hai fatti per Te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te» (Sant’Agostino, Confessioni, I, 1, 1). Questo significato è espresso in maniera quanto mai icastica dalle prime parole del primo dei Salmi delle ascensioni: «Al Signore nella mia angoscia ho gridato ed egli mi ha risposto» (120,1). I canti delle ascensioni sono, insomma, una specialissima scuola del desiderio e una scuola di preghiera: essi dischiudono il cuore assetato all’abisso indicibile del Dio, che venendo nella storia apre il cammino, accende l’attesa e offre una promessa sempre più grande del compimento realizzato.
* Arcivescovo di Chieti-Vasto