La Panarda, il rito del cibo e del fuoco per Sant’Antonio

La tradizione abruzzese della grande abbuffata fra gastronomia e antica devozione popolare

di Gino Melchiorre

C’è Panarda e Panarda, ma le più diffuse, e popolari, si svolgono o si svolgevano nella notte tra oggi e domani, Sant’Antonio Abate, e inizialmente si componevano di una unica e semplice pietanza, il “paniccio”, a base di polenta di miglio, o di altro sfarinato (escluso ovviamente il granturco ancora di là da venire), con l’aggiunta di pecorino e ricotta. Ascendenze pastorali, quindi.

E’ quanto spiega Antonio Stanziani, rinomato chef di Villa Santa Maria ed ex-docente al locale Istituto alberghiero Marchitelli dove proprio lui organizzò e ripristinò, nel 1994, il rito di questa grande abbuffata con una cinquantina di pietanze, calibrate tra carne pesce e legumi, piatti freddi e caldi, vini abruzzesi e, per finire, un decotto con erbe aromatiche della Majella per chi avesse difficoltà nella digestione (si fa per dire…). Una descrizione di questa e altre manifestazioni dello stesso tenore organizzate da Stanziani (anche a Torino al Salone del Gusto nel 1998 con quasi il triplo di pietanze) si trova in un suo libro intitolato “La Panarda di Villa Santa Maria”(ediziono Qualevita).

Ma la più antica (documentata da Emiliano Giancristofaro in “Tradizioni popolari abruzzesi” edito dalla Newton Compton) sembra risalire al 1476, a Luco de’ Marsi, dove una compagnia di sette “compari” aveva per statuto l’obbligo di offrire sostegno e solidarietà alla popolazione, e ciascuno di loro, a turno, preparava una panarda nella domenica di Pentecoste. Si trattava sempre, però, di un fatto privato, familiare o interfamiliare, di poche grandi famiglie.

Nel 1657, scrivono Adele Cicchitti e Carla Cotellessa in “Il pane e la lingua” (Tabula Edizioni), nella serata del 16 gennaio a Villavallelonga c’erano case dove si consumavano questi pranzi pantagruelici e devozionali in onore del santo eremita, «presente in sala con una statua adorna di corone di frutta fresca e secca, di dolci e di uova», che duravano tutta la notte fino al mattino successivo, «con il consumo di fave lesse, poi distribuite pubblicamente».

Più diffusamente Maria Concetta Nicolaj in “La Panarda” (edizioni Menabò) racconta di una famiglia del posto, Serafini, obbligata per un ex-voto a ringraziare San’Antonio Abate con una “festa a fuoco” per grazia ricevuta, quindi una panarda, tramandatasi poi per eredità, e che oggi vede impegnate, sempre a Villavallelonga, una ventina di famiglie. Il capofamiglia che dà inizio alla festa con una preghiera si chiama “panardere”.

Lo studioso Franco Cercone, invece, ha riscoperto uno scritto dello storico Giuseppe Tanturri che, nella sua “Monografia di Scanno” del 1835, abbina la Panarda ad un pranzo di nozze. «La gente viveva di stenti», spiega Cercone, «e in una giornata consumava tutto quello che era riuscita a mettere da parte».

Ma il culto cibario, anche nella stessa Val di Sangro, ha diversi appuntamenti temporali. Se a Villa Santa Maria e Buonanotte (oggi Montebello del Sangro) le “piccole panarde” avevano luogo il 17 gennaio, nella vicina Monteferrante, anch’essa paese di cuochi, se ne svolgeva una grande il 19 marzo, in onore di San Giuseppe. Per anni le famiglie dei cuochi emigrate in America o altrove incaricavano, a spese loro, i ristoratori rimasti in paese di organizzare una Panarda per la popolazione. Ad Atessa si era persa la tradizione del “lessame”, riscoperta un paio di anni in occasione del primo maggio, la festa della primavera, e allestita proprio da Stanziani, cuoco e ricercatore, sperimentatore, come tutti i grandi chef, e creatore dello «spumone di Villa Santa Maria, un dolce che chiude i grandi pranzi, ma anche di un altro allestimento tipico dei festeggiamenti del Sant’Antonio Abate, basati sul consumo del maiale: una testa di maiale su un tavolo allestito di ogni ben di Dio. In attesa di arrivare alla “costa di maggio” e sperando di oltrepassare il mese critico - meteorologicamente - di aprile, quando, racconta un proverbio molisano ricordato da Cercone, «lo foco è più importante de lo pane».

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