Francesco Baccini

L'INTERVISTA / FRANCESCO BACCINI

«Volevo fare il calciatore ma canto meglio» 

L’artista questa sera (ore 21.30) al Bluebar di Francavilla celebra 30 anni di carriera. A seguire, in piazza Sant'Alfonso, il concerto di Roberto Vecchioni 

Ci sono quattro tappe abruzzesi nel tour con cui Francesco Baccini celebra i suoi trent’anni di attività. «Un caso», spiega il cantautore nato a Genova nel 1960, «ogni anno capita che ci siano più concerti in una regione piuttosto che in un ’altra». Il primo appuntamento da queste parti con Baccini è stasera a Francavilla, alle 21.30, ospite del Blubar Festival in piazza Sant’Alfonso.

Roberto Vecchioni

E a seguire, alle 22,30, il concerto di Roberto Vecchioni. Sarà poi a Gessopalena il 17, il 14 settembre a Lanciano e il 22 a Schiavi d’Abruzzo. «Quello di Lanciano sarà un concerto particolare», annuncia il cantante, «perché una regista francese sta girando un docufilm su di me, e parte delle riprese saranno fatte lì».
Baccini, se la ricorda la prima volta che si è esibito in Abruzzo?
Certo. Era all’Aquila, quando portavo in tour “Il pianoforte non è il mio forte”. Era agosto e avevamo tutte date sulla costa dove faceva un caldo boia. All’Aquila invece trovammo un freddo polare e dovettero prestarci dei maglioni!
Invece questi trent’anni come sono iniziati?
Sinceramente non ricordo un periodo in cui non suonavo, e quando non suonavo ascoltavo dischi. Tra gli 8 e i 9 anni ho cominciato col pianoforte, e fino a 15 facevo solo classica: ho scoperto dai miei coetanei blues, rock e altri generi, che prima vedevo come robe lontane e assurde perché sentivo cose come Chopin, Beethoven e Litz. Poi mi piacevano i cantautori per i testi.
Da bambino voleva fare il musicista?
In realtà ero convinto di diventare il portiere della Sampdoria, ma dovetti smettere per una malattia al femore: una grande delusione. Nello stesso periodo morì mio padre, che era genoano: si andava a vedere una domenica il Genoa e una la Doria, e una volta che il Genoa vinse 5-0 mi sentii genoano. Ora in qualsiasi posto dove sono devo vedere la partita del Genoa! Ma sono un genoano atipico, non sono antidoriano e non cambio la vittoria nel derby per un buon campionato.
Lei viene annoverato tra gli artisti della “Nuova scuola genovese”: si riconosce in questa etichetta?
Sicuramente sono nato a Genova e sono genovese, e come tutti i genovesi ho un mio modo di vedere la vita. Ma le etichette… Siamo un popolo strano da sempre: quando tutta Italia è stata sotto i francesi, gli spagnoli o i tedeschi, o altri avevano i loro de’ Medici, Genova era una repubblica.
Però un legame con la “Scuola genovese” dei vari De André, Paoli, Lauzi, Tenco ce l’avrà.
I miei preferiti sono in assoluto Tenco e De André, con il quale a un certo punto sono diventato amico. Era un mito della mia adolescenza: a 16-17 anni mi sono innamorato dei suoi testi che raccontavano storie, spiazzavano e insegnavano qualcosa.
Come vi siete incontrati?
Una sera che dovevo cantare in un posto e mi presentano Dori Ghezzi, le dicono che sono genovese e lei mi fa: “Devi venire da noi”. Dopo due sere a Milano c’era un miniconcerto per presentare alla stampa un mio disco, in sala vedo uno che sembra De André e mi chiedo: “Sto dando i numeri?”. Poi vedo una che sembra Dori, e allora penso proprio che sto dando i numeri. Invece erano loro, mi invitano a cena e inizia questa amicizia. È andata avanti fino alla fine, andavo a casa sua 2-3 volte a settimana: mi sentivo fortunato perché non frequentava quasi nessuno.
C’è stata anche una collaborazione con lui.
Sì, per “Ottocento”, un brano di “Le Nuvole”, mi chiede di mettere delle idee in un testo. Non compaio come autore, ma gli propongo uno scambio tra genovesi: “Io ti metto dentro delle immagini, ma tu canti con me”. Mi risponde: “Belín!!”. La prima e unica volta che ha cantato un blues gliel’ho fatto cantare io con “Genova Blues”.
Di duetti ne ha fatti comunque parecchi, con tanti colleghi.
Mi piacciono le collaborazioni con gente apparentemente lontanissima. Passo da un genere all’altro, gioco con la musica: mi diverte.
Rimpianti dopo tanti anni sul palco?
Nessuno. Rifarei tutto perché ho fatto tutto quello che ho voluto e nessuno mi ha mai imposto nulla.
La svolta di questa carriera trentennale?
I primi album e la Targa Tenco nel 1989 con “Cartoons”. Facevo lo scaricatore al porto e poi l’impiegato col sogno di vivere di musica. Mi sono licenziato per andare a Milano a tentare la fortuna, bussavo a tutte le porte come un martello pneumatico e dormivo in macchina: un’esperienza di vita pazzesca, roba nella quale impari tutto! Ma ero convinto di portare una proposta originale, dovevo solo trovare la persona giusta che ci credesse. Avere il primo disco in mano era un sogno realizzato, non pensavo neanche al fatto che si dovesse vendere: ora invece pensano prima a come vendere e poi a fare il disco.
È un giudizio negativo sulla musica di oggi?
La media è sottoterra. I testi sono solo canzoni con giochi di parole, non dicono niente. Ma la musica riflette anche la società: una società di geni non fa una musica da idioti, e viceversa. Vorrei sentire qualcosa di nuovo, che mi stupisse, ma è come cercare un ago in un pagliaio.
©RIPRODUZIONE RISERVATA