L'Aquila

Conti in rosso alla diocesi: arrivano i prestiti dalla Cei

L’arcivescovo Petrocchi: «Non nascondo il deficit ma stiamo attuando i tagli» Il presule chiama gli esperti della Conferenza episcopale per le verifiche

L’AQUILA. Il clero eterogeneo, i fedeli disorientati, i debiti della diocesi, la Cattedrale coperta di muschio. Le 226 chiese e 90 canoniche danneggiate dal sisma. E sullo sfondo la città da rimettere in piedi. L’arcivescovo Giuseppe Petrocchi, a un anno e mezzo dall’insediamento, nell’incontro coi giornalisti non evita nessuna domanda.

Cosa è stato fatto per avviare la ricostruzione dei beni ecclesiastici?

«È necessario agire con riservatezza e rendere note le conclusioni quando sono state raggiunte. Non parlo senza elementi solidi. È questione di rispetto. La prima fase l’ho condotta con l’aiuto di esperti. Ho chiesto pareri giuridici. Ci è apparsa una condizione normativa confusa. Il rischio è che ci si trovi di fronte a disposizioni che alcune volte collidono, altre producono attriti, in ogni caso possono attivare conflitti e contenziosi col rischio di ritardare all’infinito la ricostruzione. Abbiamo cercato con la Ceam un dialogo col governo. Ho incontrato, tra gli altri, Franceschini, Delrio, Legnini, D’Alfonso, Magani, Mancurti, Aielli, Cialente, Di Stefano».

Cosa avete chiesto?

«Una nuova legge che mettesse ordine, invocando tempi rapidi. Mai siamo andati a chiedere privilegi, ma rispetto dei diritti sì. Sulle chiese abbiamo l’obbligo di poter dire la nostra, non è la richiesta di un di più che sottrae qualcosa a qualcuno, ma è un tutelare un bene che ci è affidato, è nostro, ma che culturalmente appartiene a tutti. Abbiamo avuto di mira il bene comune e basta. Col Comune il rapporto è leale. A noi sta a cuore la ricostruzione».

E a chi vi accusa di aver voluto scrivere la legge?

«Quando ci è stata data la bozza, abbiamo chiesto che fosse rappresentata la specificità nostra. Non vogliamo invadere altri territori ma gli spazi assegnati vogliamo poterli abitare al servizio di tutti. Abbiamo fatto proposte di variazione di articoli e le abbiamo mandate a chi era titolato a riceverle. Abbiamo agito nel rispetto e nella ricerca della regola. Non bisogna confondere l’arcidiocesi col consorzio Sant’Emidio che comprende la Cattedrale. È simile a un condominio, siamo proprietari del 76% dell’area edilizia ma quando si vota per teste noi siamo minoranza».

Si è mai pentito di aver lasciato Latina per L’Aquila?

«Io sono venuto qui perché mi ha mandato Papa Francesco, non per opzione mia. Sono venuto con tremore: ho capito subito che era un compito gravoso. Qui la situazione non è solo complessa, è complicata. È difficile lavorare qui, anche pericoloso. Perché si può andare facilmente incontro a pregiudizi. In questo contesto, poi, si avverte una sofferenza di fronte alla quale bisogna mettersi in ginocchio. Ho già detto che c’è un diritto a soffrire e la sofferenza va rispettata, non anestetizzata a tutti i costi. Ho parlato con papà e mamme che hanno perso i figli, è il dolore più acuto. Non si possono invadere queste dimensioni abitate da un mistero pretendendo di dare analgesici a basso costo. Bisogna far propria quella sofferenza e lasciar parlare l’unico abilitato a dire qualcosa che è consolante e che apre alla speranza, Dio e nessun altro. Ho detto e ripeto: voglio essere servo di Dio, servo di Pietro e di nessun altro, nes-su-no».

Cosa desidera per L’Aquila?

«Che la legge venga varata al più presto, che sia una buona legge e che arrivino i fondi. Ci siamo battuti perché certe resistenze su concessioni di contributi all’Aquila venissero rimossi. Del caso è informata la Cei e la Santa Sede. Mai mi rivolgerò a nessun potentato per ottenere favori, non l’ho fatto e non lo farò. Però mi batterò perché ciò che è giusto venga concesso non come elemosina ma come giustizia. Non busserò a nessuna porta per avere di più. Non mi sono pentito ma soffro tutti i giorni e non sarò tranquillo fino a che non vedrò avviate a soluzione le questioni sollevate. Qualunque aquilano ami la città mi trova amico. Le ferite di questa città sono le mie ferite».

La Cattedrale devastata attende la ricostruzione.

«Un dolore costante. Perché non sia stata fatta la stessa copertura usata per altre chiese me lo chiedo ma non ho risposte. Non ho un luogo dove esercitare il mio ministero in pienezza».

I conti in rosso della diocesi sono un altro affanno...

«Il deficit non è facile da quantificare. Occorre trasparenza. Ogni mese mi viene consegnato un rendiconto. I conteggi sono sottoposti a verifica. Chiamerò gli esperti Cei per verificare come abbiamo impostato il bilancio. Non ho nessuna faccia da salvare, nessun credito da attestare: quel che conta è il bene della mia Chiesa».

Da dove viene il buco?

«Il sisma ha determinato situazioni catastrofiche. La diocesi aveva un apparato non adeguato a un evento così devastante. Si è dissanguata perché ha adottato la logica di rispondere all’urgenza senza un approccio numerico dove ogni spesa è ricondotta a una riserva. Ma sarebbe come dire a un medico che si strappa la camicia per fermare l’emorragia di un ferito trovato per strada che non ha agito secondo i protocolli. Il giudizio va dato nella condizione d’urgenza in cui ci si trova. Questa Chiesa ha condiviso la sofferenza della gente. Possono esserci stati errori. Stiamo facendo un’opera di risanamento che non sarebbe possibile se non fossimo supportati dalla Cei, non con erogazioni liberali ma con prestiti».

Degli scandali della ricostruzione cosa pensa?

«Piena fiducia nelle forze dell’ordine. Tutti dobbiamo guardare alle istituzioni con uno sguardo riconoscente e amico. Mi sento alleato della magistratura».

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