Ex parroco di Pizzoli accusato di omicidio a Trieste

Don Paolo Piccoli rischia il processo per avere strangolato un anziano prete. Il sacerdote incastrato dalla prova del Dna

L’AQUILA. In molti lo ricordano per le sue crociate contro i comunisti, per la battaglia (persa) per decibel troppo alti delle campane della sua parrocchia di Santo Stefano Protomartire di Pizzoli e per le sue singolari prese di posizione. Insomma un sacerdote stravagante, dai modi bruschi, e per questo ancora molto noto nell’Aquilano dove, per le campane rumorose, il giudice lo condannò a una multa. Ma i guai giudiziari per lui all’orizzonte sono ben peggiori. Don Paolo Piccoli, 52 anni, veronese, ora è nei guai: è accusato di avere strangolato un anziano sacerdote che viveva nella Casa del clero nel capoluogo friulano. Il pm lo ha incriminato per omicidio volontario in un’indagine che, inizialmente, lo vedeva solo come testimone. Ora rischia trent’anni di carcere, se i sospetti saranno confermati.

LA SVOLTA. Secondo Il Piccolo di Trieste siamo di fronte a una svolta dopo due anni di indagine visto che è stato chiesto il rinvio a giudizio con udienza preliminare il 13 dicembre. E la pista investigativa, appunto, suppone che a uccidere l’anziano prelato possa essere stato nientemeno che un “collega” del potere spirituale, il suo vicino di stanza, uno dei pochi presenti quella notte nella Casa del Clero di via Besenghi. Un prete di 92 anni, ammazzato dal suo vicino di stanza, insomma. Alla vittima sarebbe stata strappata una catenina con medagliette d’oro. La prova indiziaria “regina” è costituita dal fatto che una serie di piccole macchie di sangue – trovate sotto il corpo di don Rocco riverso senza vita sul suo letto – appartengono senza ombra di dubbio al profilo genetico di don Piccoli, come hanno attestato le analisi scientifiche dei Ris di Parma, che una volta accertato che quel sangue non era della vittima hanno isolato un non ristretto elenco di Dna, soprattutto attraverso cosiddetti “tamponi” volontari, ovvero campioni di saliva resi dalle persone convocate dagli inquirenti. Il presunto assassino, in occasione di una delle deposizioni che l’hanno coinvolto, si sarebbe difeso sostenendo di essere affetto da una malattia dermatologica che gli provoca talvolta delle piccole emorragie, anche alle mani, e che il sangue si sarebbe potuto propagare nei paraggi del corpo senza vita di don Giuseppe Rocco perché fu proprio lui, l’accusato, a impartirne la benedizione nel momento in cui venne trovato morto. Una spiegazione che non viene ritenuta pienamente credibile in sede investigativa.

NON SOLO DNA. La prova del Dna è considerata dagli inquirenti la più importante, ma non l’unica. Al di là del fatto che le ricostruzioni investigative avrebbero fatto venire a galla comportamenti, da parte di don Piccoli, totalmente differenti rispetto alle sue abitudini in prossimità del delitto del 25 aprile 2014. L’inchiesta non trascura, infatti, che, nei giorni immediatamente precedenti alla morte di don Rocco, dalla stanza di quest’ultimo sarebbero spariti alcuni oggetti sacri o perlomeno di valore simbolico riconducibili alla religione: una Madonna, un veliero e un cavallo.

Oggetti di cui don Rocco avrebbe denunciato in ambito ecclesiale la scomparsa, inserendo proprio don Piccoli tra quelli che se ne sarebbero potuti impossessare. Ipotesi tutta da verificare ma per ora sta in piedi.

©RIPRODUZIONE RISERVATA