Il 25 aprile in libreria, ecco "Io ho visto" Nel libro di Buffa anche l’eccidio di Limmari

Trenta storie di sopravvissuti alle stragi naziste raccontate dall'ex direttore del Centro Pier Vittori Buffa. C’è anche il racconto di Virginia Macerelli da Pietransieri

Oggi, 25 aprile, festa della Liberazione, l’Italia ricorda attraverso cerimonie e commemorazioni pubbliche la lotta al nazifascismo, costata migliaia di vittime civili. Un tributo di sangue che anche in Abruzzo è stato pesantissimo, con stragi avvenute in piccoli paesi e in città. Per non disperdere la memoria di quegli orrori Pier Vittorio Buffa, giornalista, ex direttore del Centro, ha raccolto in un libro trenta storie di uomini e donne sopravvissuti alle stragi dei nazisti. Che hanno visto uccidere familiari e amici. Che convivono da settant’anni con un dolore che il tempo non potrà mai cancellare. Il libro si intitola “Io ho visto” (Nutrimenti, 368 pagine, 19,50 euro) e vi si racconta anche la storia di Virginia Macerelli, che il 21 novembre 1943 aveva sette anni. Era a Pietransieri, Roccaraso, nell’Aquilano, dove i tedeschi trucidarono 128 persone. Tra loro la madre, quattro fratelli e una sorella. Il suo racconto è a pagina 331 e si intitola “Lo scialle nero”. Di seguito ne riportiamo uno stralcio.

 

La mamma mi ha coperto il viso con lo scialle nero, ma io ho visto. Ho visto il tedesco con la mitragliatrice in mano che ci guardava senza espressione. Stava per uccidere, non rideva e non piangeva. Se dovessi dire della sua faccia non saprei che dire perché aveva l'elmetto e la mitragliatrice, cioè, non proprio la mitragliatrice perché, ma l'ho capito dopo, era un mitra, una di quelle armi che si imbracciano e sparano tanti colpi. Ho visto mio fratello Arnaldino accanto a me, ancora vivo dopo tutti quei proiettili. Mi ha sfiorato il braccio e con la voce bassa mi ha chiesto: "Virginia, mamma è morta?". Aveva un occhio di fuori, mio fratello, e ho appena fatto in tempo a dirgli: "Sì, è morta", che è morto anche lui. Ho visto mia sorella Marna e l'altro mio fratello, Ettore, che non si muovevano più. La mamma aveva preso in braccio me, che ero la più piccola e gli altri tre se li era messi intorno. Ho visto il sangue che era dappertutto. L'ho visto quando ho sentito abbastanza lontani i passi dei tedeschi e ho messo la testa fuori dallo scialle. Potevo muovere solo la testa perché tutto il corpo di mia madre era sopra di me. Lei non si muoveva, stava diventando fredda. Ma i lamenti erano tanti. Chi chiamava Dio, chi la mamma o la figlia o il figlio, urla no, non ne ho sentite, forse nessuno ne aveva la forza.

Ho visto i tedeschi che tornavano. Forse si erano accorti che c'era ancora chi si muoveva, anche se ferito, e volevano uccidere proprio tutti. Ho abbassato la testa, mi sono coperta ancora con lo scialle nero della mia mamma e loro hanno ricominciato a sparare. Non più raffiche di mitra, ma colpi secchi e isolati, di pistola. Non so quanto tempo è durato. So solo che poi arrivò un silenzio, ma un silenzio che non si sentiva più nemmeno un uccello.

C'eravamo nascosti nelle masserie di Limmari appena i tedeschi avevano cominciato a bruciare le case del nostro paese, Pietransieri. Siamo tutti insieme: mamma, fratelli, sorelle e nonna. Mio padre no, i tedeschi lo avevano portato via già da molto, pensavamo in Germania e invece stava non lontano da noi, sulla Maiella, a lavorare alle fortificazioni. I tedeschi vengono spesso da noi, sempre gli stessi soldati, quattro o cinque, a cercare gli uomini. Ma noi stiamo attenti e i miei due fratelli grandi riescono sempre a non farsi trovare finché non si arriva al giorno della donna con il cesto di pane. Quel giorno una donna della quale non ho mai saputo il nome stava tornando alla sua masseria con sulla testa una grande cesta con il pane appena cotto. Quando è proprio sulla porta, i tedeschi, che si erano nascosti lì vicino, buttano una, due, tre bombe dentro la casa. Un grande scoppio, tutto crolla, la donna urla così tanto e così forte che sembra che lì sotto non ci sia una persona sola.

Per questo forse i nostri uomini, che si erano nascosti lì intorno, vengono fuori per aiutare. È una trappola. La donna non urla più e, quando il fumo si dissolve, per terra ci sono solo le sue gambe. Ma gli uomini, cinque in tutto, compresi i miei due fratelli grandi, vengono portati via dai soldati. Noi vediamo tutto da lontano, mia madre è accanto a me e vede i suoi figli sparire dietro un dosso, in mezzo ai tedeschi. Piange la mamma, piange e grida di dolore. E grida ancora di più quando sente gli spari, i colpi di fucile che uccidono.

Il più grande dei miei fratelli, Alfonso, che aveva già fatto il militare, lo hanno ritrovato dopo sei mesi, nel boschetto. L'altro fratello, Sinibaldo, lo ha trovato un cagnolino, ad agosto (...). Tutti sapevano che di mio fratello non avevamo avuto più notizie, così il contadino chiama mio padre che riconosce la testa di suo figlio Sinibaldo perché ha un dente d'oro. Noi, dopo che si sono portati via i fratelli, restiamo nella masseria dove arrivano tante altre persone, diventiamo cinquanta-sessanta e per qualche giorno i tedeschi non si fanno più vedere. Fino alla mattina nella quale, appena arrivati, si schierano con le armi, ci fanno uscire tutti e ci ordinano, a gesti e grida, di metterci intorno a un tronco spezzato che è sul piazzale. La mamma prende in braccio me che sono la più piccola e si mette intorno i miei due fratelli e la sorella. Ha lo scialle nero, come si usava allora, grande e antico, mi avvolge in quello, come a proteggermi. Siamo tutti in gruppo, vicini uno all'altro, noi non siamo al centro, siamo forse quelli che stanno più lontani dal tronco spezzato. Lo scoppio è fortissimo, ho saputo dopo che avevano fatto esplodere una mina messa proprio sul tronco. Io non vedo cadere le persone, perché guardo davanti a me dove c'è il tedesco con il mitra che guarda nella nostra direzione, sono occhi che non posso dimenticare. La mamma capisce, mi copre la faccia, ma io vedo. Spara. Non so se solo il soldato con il mitra o anche gli altri. Ma ricordo tanti colpi e la gente che cade, uno sull'altro, le urla, i lamenti, poi quel sangue, dappertutto. Io mi ritrovo per terra, coperta completamente dallo scialle di mia mamma. Poi le ultime parole del mio fratellino, i colpi dei tedeschi tornati per uccidere chi ancora respirava.

Io sono nel buio dei miei occhi chiusi e dello scialle nero. Sento i colpi vicino a me, trattengo il respiro per più tempo che posso, ma i soldati penso che nemmeno mi vedano per quanto sono immobile, nascosta dal corpo della mia mamma e dallo scialle nero. Rimango con la testa giù, ferma ferma per una, due, tre ore, non so, ma per tanto tempo. La mia mamma è morta, i miei tre fratelli pure, io sono sotto, accanto ai loro corpi, freddi. E intorno c'è quel silenzio senza nemmeno gli uccelli che volano, un silenzio mai sentito prima. Quando arrivano le due donne è sera. Sento i loro passi, le loro voci, parole nel mio dialetto, urla che non riescono a diventare urla. Le chiamo, mi vedono, spostano il corpo della mia mamma che mi impediva di muovermi, mi tirano su e mi guardano con gli occhi spalancati. Sono piena di sangue, poi mi conteranno cinque ferite, la più grande qui, sotto il braccio, un proiettile mi ha fatto proprio un buco. Ma del dolore per le ferite, mentre stavo sotto la mamma, non ho proprio memoria. Come non ho memoria di quello che ho pensato in tutto quel tempo. Le due donne prima mi lasciano vicina a un ruscello, poi una di loro torna a prendermi e mi porta in un casolare, mi sistema nel fienile, in una mangiatoia dove c'è un altro bambino che si chiama Flavio. Passiamo la notte lì, uno vicino all'altra. Quando il sole è spuntato da poco sentiamo scoppi che rimbombano dappertutto. Poi il fuoco: ancora i tedeschi, hanno lanciato delle bombe a mano per incendiare tutto. Flavio e io non abbiamo bisogno di parlarci, sappiamo tutti e due che se restiamo lì dentro, nella mangiatoia, moriremo bruciati. Ci buttiamo giù, c'è così tanto fuoco che sembra mezzogiorno e facciamo fatica a muoverci (...). Piano piano arriviamo a un ruscello non molto lontano. Io passo dall'altra parte, lui resta di qua. Quando sentiamo avvicinarsi il rumore degli scarponi dei soldati ci guardiamo e restiamo giù, immobili, senza parlare. Mi arrivano alle spalle, uno di loro mi dà un calcio, io non mi muovo, proseguono, credono sia morta, come hanno creduto quelli di prima che con la pistola hanno ucciso tutti. Riconosco la nonna dalla voce e dal pianto. Lei, poco prima che i tedeschi arrivassero da noi, era andata in un altro casolare e si era salvata. Mi vede lì per terra, come un cencio, cerca di tirarmi su anche se sono tutta sangue. Io urlo, urlo come una pazza perché adesso ho dolori ovunque, me li sento ancora oggi addosso (...). Flavio non ce la fa a farlo venire con noi, so che poi lo hanno portato in un altro casolare ma non è arrivato in fondo, è morto (...).

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