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Jamm' mò, sessant’anni fa la rivolta per il distretto militare

La manifestazione vide scendere in piazza tutta la città, i ricordi degli anziani: «Abbiamo fatto la rivoluzione, non avevamo niente, solo tanta fame»

SULMONA. Passando lungo corso Ovidio li vedi ogni mattina al solito posto, sulle panchine che danno le spalle all’acquedotto medievale di piazza Garibaldi. Sono sempre i soliti giovanotti dei primi decenni del secolo scorso, che si danno appuntamento lì per passare qualche ora in compagnia. Avvicinandoli e parlandoci, scopri che sono i ragazzi che animarono “le due giornate del ’57”. Le giornate della rivolta ricordate con il motto "Jamm' mò", muoviamoci adesso.

I “soldati” guidati dai “generali” della rivolta, gli avvocati Vincenzo Masci e Pasquale Speranza. Entrambi protagonisti indimenticati di una delle pagine più importanti della storia sulmonese. Speranza, classe 1922, è morto l’11 aprile 2015 e Masci è morto, all’età di 91 anni, il 9 settembre 2016. E il gruppo dei giovanotti delle panchine li ricorda benissimo.

All’epoca poco più che adolescenti, conservano di quei momenti un ricordo vivo, scolpito nella memoria e nel cuore. Come quello raccontato da Giovanni Fiorino, 83enne, che all’epoca faceva il conducente di autobus comunali. «C’era un gran trambusto già dalla villa comunale», ricorda, «ma quando arrivai per il corso vidi la reale portata della cosa. C’erano uomini che avevano trascinato un barile di benzina fino all’Annunziata. Gli autobus arrivarono proprio fin qui, ai cordoni, ma poi scendemmo. L’avvocato Masci guidava tutti. Volavamo pietre, candelotti e tegole. Era il caos». C’è anche chi all’epoca faceva le medie, come Armando Sinibaldi, attuale vice presidente della Fondazione Carispaq.

«Ero a scuola e dall’altoparlante ci avvertirono che dovevamo uscire per tornare a casa, senza passare dal centro storico», dice ricordando quegli anni, «chiaramente noi bambini ci facemmo prendere dalla curiosità e facemmo il contrario di quello che ci dissero a scuola. Ma appena arrivammo lungo il corso ci mettemmo paura e scappano ognuno a casa propria».

Nei racconti dei protagonisti dell’epoca, però, non trovano spazio gli strascichi giudiziari e le conseguenze di quelle due giornate (che per qualcuno hanno comportato problemi anche annosi). È l’orgoglio sulmonese che si risveglia. Come quello di Gaetano Paolini, 78 anni. «Abbiamo fatto la rivoluzione», urla, «e siamo pronti a rifarla. Non bisogna aver paura di difendere quello in cui si crede e noi lo facemmo con la forza. Perché non ci ascoltavano, ma non avevano capito con chi avevano a che fare».

Comincia dal 1957, dunque, la storia di privazioni e spoliazioni varie della città. «Staccavamo i sanpietrini dal corso per lanciarli contro le forze dell’ordine», lo interrompono i fratelli Vittorio e Crescenzo Cardinale, di 82 e 79 anni, «tutti partecipammo. Una città intera si ribellò. Non potevamo permetterci di perdere tutto. Anche perché non avevamo niente. Non avevamo paura, avevamo fame». Le difficoltà economiche dell’epoca sono una delle cause scatenanti della rivolta approfondite da storici e analisti. Ma fondamentale fu anche quello che il distretto militare rappresentava per la città, la sua storia e il suo futuro. Come fa notare Gennaro D’Ambra, classe 1931, originario di Calvizzano nel Napoletano, che qui a Sulmona fece il militare e si trasferì definitivamente.

«All’epoca stavo facendo un corso regolare nell’Esercito», racconta il militare in pensione, «ma la notizia che avrebbero smantellato tutto, ci mandò su tutte le furie. Perdere il distretto era per noi la fine, anzi avrebbe rappresentato la morte della città e del territorio. A quell’epoca si pativano la fame e la miseria. Non potevamo e non dovevamo permetterlo e allora partimmo. Jamm’ mò», dice con perfetta inflessione sulmonese.

Giovanni Schiavo, 87 anni, gli fa eco con un filo di voce e ripete quel grido di rivolta. «Noi siamo pronti a rifarlo», avverte il più giovane del gruppo, Giovanni Caldarella, 72 anni.

L’animo rivoluzionario non li ha abbandonati, nemmeno dalle panchine sui cordoni di piazza Garibaldi.

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