«L’Aquila deve tornare a valorizzare tutte le sue frazioni»

Intervista allo storico professor Alessandro Clementi «Nei borghi più servizi e migliore qualità della vita».

L’AQUILA. Il professor Alessandro Clementi è nato nel 1927. E’ uno dei maggiori studiosi della storia dell’Aquila. Qualche settimana fa, l’editore Laterza ha ripubblicato il libro di Clementi «La Storia dell’Aquila dalle origini alla prima guerra mondiale». Ha insegnato per molti anni storia medioevale all’Università dell’Aquila, impegnato in politica è stato consigliere comunale. E’ grande appassionato della montagna. Fra i suoi volumi la storia dell’Università dell’Aquila; le vicende dell’ abbazia di Santa Maria di Picciano e poi «L’arte della lana in una città del Regno di Napoli» «Amiternum dopo la distruzione» e con Elio Piroddi «L’Aquila».

OCRE. Il professor Alessandro Clementi ha quasi 83 anni. Ha passato tutta la sua vita a studiare L’Aquila e la sua storia, soprattutto quella medioevale. Oggi, di fronte a una città distrutta e a tante comunità disperse ha sentito il dovere civile di intervenire. Lo ha fatto con due articoli sul Centro e ha ripubblicato, grazie all’editore Laterza e al centro studi Gioacchino Volpe, la «Storia dell’Aquila», volume che ancora oggi è fra quelli fondamentali per capire come nacque la città e come si è andata sviluppando nei secoli. Un uomo e uno studioso che non si vuole arrendere e vuol dare il suo contributo alla rinascita della città.

Ha accettato con grande disponibilità l’incontro con il Centro. L’intervista che segue è la sintesi di un colloquio durato più di due ore. Clementi è uno di quei personaggi che non finisce mai di interessare l’interlocutore fra aneddoti, riferimenti storici, confronti fra passato e presente. Ricorda suo fratello Fausto, economista avviato a una carriera luminosa e la cui vita fu stroncata a soli 33 anni a causa di un incidente stradale. Tira fuori un libro e un disegno del fratello che conserva come reliquie e ricorda il dolore che lo travolse in quella tristissima circostanza. E poi dalla storia si arriva all’attualità della ricostruzione.

Professore, lei dov’era la notte del sei aprile?
«Ero dove sono adesso, a Cavalletto d’Ocre, diciamo nella mia casa di campagna, o almeno lo era fino al sei aprile, oggi è di fatto la mia nuova casa dove dimoro stabilmente. Io abitavo all’Aquila, in via del Guastatore, nel palazzo Pica (il deputato aquilano che nel 1863 firmò la legge per reprimere con ogni mezzo il brigantaggio ndr). Dopo le scosse più forti di fine marzo decidemmo con i miei familiari di venire qui a Cavalletto almeno a dormire la notte, il giorno stavamo all’Aquila».

Perché quella decisione? Si era fatto convincere dalle previsioni di Giuliani?
«Ero consapevole di stare in un palazzo che a una forte scossa probabilmente non avrebbe retto. E purtroppo avevo ragione».

Che cosa ha sentito e visto alle 3,32 del sei aprile 2009?
«Naturalmente abbiamo sentito il terremoto, la forte scossa. Ma la casa (una bella villa in cemento armato ndr) qui ha retto benissimo, non è caduto a terra nemmeno un bicchiere. Nel posto in cui sono, leggermente rialzato rispetto alla conca aquilana, si vede in lontananza la città. Qualche minuto dopo la scossa mi chiama mio nipote e mi dice: nonno vieni a vedere L’Aquila. Si vedeva una enorme nuvola di polvere. E allora ho pensato: la mia città è distrutta».

E’ tornato a vedere L’Aquila dopo il terremoto?
«Ci sono tornato una volta sola (per un attimo si commuove ndr). Sono andato a casa. Se fossimo stati lì quella notte saremmo morti tutti, le scale sono completamente crollate. Poi dal cortile del palazzo guardando verso l’alto ho visto il mio studio devastato con “appese” le carte sulle quali stavo lavorando nell’ultimo periodo. A vedere quello sfacelo sono stato preso dall’angoscia, non ci sono più tornato».

Le sue carte, i suoi libri. Ha potuto salvarli?
«Sì, grazie a mia figlia e soprattutto ai vigili del fuoco che non finirò mai di ringraziare, i miei libri e altri documenti sono stati recuperati, messi dentro più di 40 grossi scatoloni e li ho portati a San Benedetto in Perillis dove già conservavo altri volumi della mia biblioteca».

Su cosa stava lavorando prima del sei aprile?
«Attraverso importanti documenti risalenti all’inizio del 1300 stavo ricostruendo la cosiddetta “qualità sociale” della popolazione che contribuì alla fondazione dell’Aquila. E viene fuori che L’Aquila non nasce solo dalla rivolta antifeudale o da altre ragioni di cui spesso si è parlato, ma soprattutto da una motivazione economica. C’è bisogno di una grande città perché lo richiede il mercato con le produzioni di allora. Non era più possibile che ci fossero borghi o fortificazioni sparpagliate sul territorio che quasi non comunicavano fra loro. E naturalmente in questo erano stati fondamentali i Normanni che “riunificando” il centro sud avevano ridato vigore, per esempio, alla transumanza e agli altri traffici commerciali dell’epoca».

Una città quindi che nasce per aggregazione?
«Sono gli abitanti dei borghi che vanno verso la città e ripeto lo fanno anche, se non principalmente, per motivi economici. Ho potuto consultare un documento del XIV secolo in cui un barone e un suo servitore, entrambi di Rocca di Mezzo chiedono di diventare cittadini aquilani. E non lo fanno certo per cambiare aria, ma perché sanno che all’Aquila hanno molte più possibilità di far crescere i loro affari».

Venendo a tempi relativamente più recenti quali sono le date e i personaggi che hanno messo il loro “timbro” sulla città, e sul suo disegno urbanistico?
«Naturalmente c’è il 1703 con il suo terremoto che distrugge completamente la città. Quella che rinasce, con le innovazioni urbanistiche che pure ci sono state, resta una città chiusa, con le sue mura e le sue porte. Direi poi che un passaggio fondamentale dal punto di vista economico e urbanistico avviene dopo l’Unità d’Italia. Il primo sindaco dopo l’Unità, Fabio Cannella, era un personaggio illuminato, che aveva idee e riusciva a metterle in pratica. Fu lui a creare il Corso con i Portici che oggi vediamo, mettendosi contro molta parte della città a partire dalla Chiesa che non poteva vedere di buon occhio la demolizione o comunque un utilizzo diverso di edifici sacri e conventi. E’ allora che nasce la biblioteca provinciale e che la città comincia ad avere nuovi spazi che, nella giusta intuizione di Cannella devono farne una città più aperta rispetto al passato, in grado di sfruttare al meglio le potenzialità delle sue energie migliori a cominciare dagli artigiani».

Poi cosa accade?
«Il regime fascista, anche dal punto di vista urbanistico, oltre che amministrativo con la Grande Aquila, prova a far uscire la città dalle sue mura. Mi riferisco a tutta la zona della Fontana Luminosa, a viale Gran Sasso, allo stadio. Fu un tentativo di “aprire” la città. Ricordo però che un piano regolatore dell’epoca, che per fortuna non è stato realizzato perché poi arrivò la guerra mondiale, prevedeva una serie di abbattimenti di edifici dentro la città che, per esempio, dovevano creare un ampio asse viario dal Corso verso Collemaggio».

Negli anni Sessanta del secolo scorso arriva il piano Piccinato.
«Lo ricordo bene perchè all’epoca ero consigliere comunale. Quello fu il vero tentativo di “spalancare” la città verso l’esterno, penso uno per tutti al Torrione. Dunque allargare gli spazi senza demolire quello che c’è dentro la città ma creare nuove zone abitative».

Arriviamo al piano regolatore Tea del 1975.
«Anche in quel caso ritengo che le idee alla base fossero buone, solo che fu sovradimensionato, si ipotizzava una città con una popolazione che poi non c’è mai stata. E purtroppo alla pianificazione ha prevalso la speculazione a siamo arrivati ad avere quartieri come Pettino nati senza una logica e senza servizi».

Oggi la città è distrutta. molte frazioni sono devastate se non addirittura cancellate. Che fare?
«Ritengo che il centro storico debba tornare ad avere alcune funzioni fondamentali, penso alle rappresentanze istituzionali, al cosiddetto terziario avanzato, al suo mercato quotidiano in piazza Duomo, al ritorno di tutti gli abitanti che hanno dovuto lasciare L’Aquila il sei aprile. Ma deve partire anche il processo inverso a quello che nel Medioevo ha portato alla fondazione della città: tornare verso i borghi. Ogni frazione deve avere la sua qualità della vita, non possiamo costringere le persone a venire all’Aquila per ogni cosa: bisogna che ci siano scuole, servizi - a partire dal posto in cui fare la spesa - aree e spazi verdi, e in tal senso mi piace molto l’idea dell’architetto Giancarlo De Amicis che parla di un parco fluviale lungo l’Aterno. E perchè no, potenziare il telelavoro a casa per far sì che a spostarsi sia meno gente possibile. Liberare in sostanza la città da tutto quello che la stava soffocando - anche per questo stava morendo il mercato di piazza Duono - e poi evitare che alla lunga le new town possano diventare - come temo - dei veri e propri ghetti che nei prossimi anni potrebbero essere incontrollabili anche dal punto di vista dell’ordine pubblico».

Ma come ricostruire il centro storico?
«Premetto una sorta di battuta in dialetto aquilano che rende bene il concetto “Chi tè i quatrini fabbrica, chi non ji tè disegna” - chi ha i soldi costruisce chi non li ha disegna -. Quello delle risorse è il primo problema. Poi serve una idea, un progetto complessivo nel quale inserire la ricostruzione vera e propria. Non si può lasciare tutti in mano a iniziative che non hanno fra loro un raccordo».

Come fare?
«Penso a una Autorità, alle Soprintendenze che dovrebbero avere un ruolo maggiore e più incisivo. E poi certo, chiamare anche i grandi architetti, a partire da Renzo Piano, per avere idee e indicazioni su come ricostruire, non certo per far fare loro i direttori dei lavori. Sono convinto che nello spirito di amore per la loro Patria - L’Aquila è parte essenziale della patria Italia - potrebbero farlo anche gratis».

Si è parlato nei giorni scorsi del carattere degli aquilani che ha caratteristiche sia positive che negative.
«Rispondo con un aneddoto: un aquilano torna dall’America dopo trenta anni. Arriva alla stazione, sale per la Rivera e da lontano vede arrivare un suo compare che non incontrava appunto da trenta anni. Il compare fa all’emigrante appena tornato: Compà, quando è che riparti? Questa imperturbabilità è una delle caratteristiche di questo popolo e ne è anche la forza. Sono convinto che anche stavolta ne usciremo bene».