L'Aquila, i rugbisti e la notte del sisma"Abbiamo fatto solo il nostro dovere"

Il ricordo degli atleti che hanno ricevuto il riconoscimento da Napolitano

L'AQUILA. Quando ci si passa la palla ovale, è questione di attimi. Un'occhiata veloce al compagno e via. Quella mattina, intorno alle 6, si sono guardati negli occhi, senza troppe parole. Ancora storditi, traumatizzati, incoscienti. Insieme, dentro un ospedale pieno di crepe e pareti crollate. Con i malati nei letti sporchi di calcinacci. Nessuna esitazione, erano là e dovevano darsi da fare. A distanza di 31 mesi, i ricordi sono sfocati. Sfuggono i volti, le situazioni, il rincorrersi delle ore. Nel cuore resta nitido solo lo spirito di squadra, il silenzio del dolore, la fatica che, nonostante tutto, non si faceva sentire. Dario Pallotta, Antonio Fidanza, Carlo Cerasoli, Lorenzo Bocchini, Stefano Varrella e Ollie Hodge la notte del 6 aprile 2009, alle 3,32, dormono nelle loro case, all'Aquila. Risvegliati dall'urlo della terra scendono in strada. Vedono e vivono la distruzione. Poi a ognuno di loro arriva un messaggio sul cellulare: «Se tu e la tua famiglia state bene, vieni all'ospedale perché c'è bisogno di te». A mandarlo è l'ispettore di polizia Lorenzo Cavallo. Lo conoscono bene, una lunga esperienza come collaboratore tecnico dell'Aquila rugby. E loro sono i giocatori di quella squadra che da sempre è il simbolo della città in Italia e all'estero.

ECCOMI.
La risposta è immediata: «Eccomi». Una sola parola. Come quell'unico sguardo, in campo, prima di passarsi la palla ovale. «Ho letto l'sms alle 5», racconta Dario Pallotta, «e ho raggiunto subito l'ospedale. Lì ho trovato i miei allenatori. Alle 6, con gli altri compagni, eravamo pronti. Un'organizzazione perfetta, c'erano i medici, gli infermieri, i volontari. E i reparti del terzo piano da evacuare. Abbiamo lavorato in silenzio, fino alle 11 di mattina. Non chiamateci eroi, abbiamo fatto solo il nostro dovere, insieme a tanta altra gente passata inosservata. C'erano persone in difficoltà, le scosse continuavano, avevamo paura. Ma siamo andati avanti». Sono le 8 quando i ragazzi si contano: tra i presenti e quelli contattati, all'appello ne mancano due. Due neroverdi. Uno si rintraccia. Vive in centro storico, ma è salvo. Ma Lorenzo Sebastiani, il loro amico Ciccio, la maglia numero 1, è disperso. «Sono momenti che ho voluto dimenticare», continua Dario, «e nessuno ci dava notizie precise. Provo a raccontare gli ultimi istanti passati con Ciccio. Poco prima della scossa più forte è passato a casa mia. Ha lasciato il suo zaino e mi ha salutato, dicendo che avrebbe dormito con degli amici universitari. Non sapevo dove. L'ho rivisto quando è stato portato in ospedale: noi eravamo lì e lui è arrivato, sotto un lenzuolo bianco».

I SALVATI.
Dario ha salvato due persone, quella notte. Una coppia di anziani, rimasti intrappolati sotto le macerie, nel quartiere di San Domenico, in pieno centro storico, vicino alla sua abitazione. Li ha tirati fuori con la forza dei muscoli e della disperazione. Ma insiste: «Non sono un eroe. E neanche un terremotato. Io sono stato fortunato, non ho dormito nelle tendopoli, avevo la mia famiglia ad Avezzano». Per l'opera svolta all'interno del San Salvatore, Dario, gli altri compagni e il loro direttore tecnico Massimo Mascioletti hanno ricevuto il premio al valor civile conferito dal capo dello Stato Giorgio Napolitano.

PER CICCIO.
Una medaglia che tutti hanno voluto dedicare a Lorenzo Sebastiani e agli altri 308 angeli del terremoto. «Un riconoscimento veramente eccezionale», commenta Mascioletti, «ma che noi intitoliamo a tutti coloro che hanno perso la vita e a chi ci ha voluto aiutare, dopo quella tragedia». Anche Antonio Fidanza ha ricordi confusi. «Sono state ore concitate. Ma porto nel cuore gli occhi dei miei compagni di squadra, quando ci siamo ritrovati all'ospedale. Sapevo di poter contare su persone valide, sia umanamente che dal punto di vista pratico. Questo mi ha dato la forza per rimanere. Quando è arrivata la notizia della morte di Lorenzo abbiamo condiviso anche il dolore. Ci siamo fatti coraggio l'un l'altro». Invece della palla ovale, quella notte hanno stretto tra le braccia malati e feriti tra cui molti anziani. Con la mente rivolta ai familiari, lasciati soli al freddo, in mezzo alla devastazione. Ma c'era un'altra famiglia, più bisognosa, di cui prendersi cura. «Dopo qualche settimana», aggiunge Antonio, «durante la semifinale di campionato, a Roseto, ho incontrato fuori dallo stadio una bambina. E l'ho riconosciuta. L'avevo trasportata fuori dal reparto. Ci siamo salutati, è stata un'emozione grandissima. Ecco, quell'emozione non la dimentico».

CHI RESTA.
La voce di Lorenzo Cavallo trema, si fa sussurro, mentre pronuncia la parola «Eccomi». I suoi ragazzi sono ancora là, come il 6 aprile. Gli occhi lucidi. Il prefetto Giovanna Maria Rita Iurato consegna le medaglie di bronzo. «Sono onorato di questo riconoscimento», dice Carlo Cerasoli, poliziotto, «che dedico a Lorenzo Sebastiani e a Riccardo Giannangeli che non sono più con noi. Quella notte mi ha segnato profondamente. La nostra forza è stata la forza di tutti gli aquilani, il pensiero di chi stava male. E il pensiero degli altri che stavano lavorando senza sosta, come noi, per salvare vite». Il terremoto ha fortificato i legami. Tra le persone. E tra le persone e la città ferita. Alcuni di quei rugbisti oggi sono lontani, vestono altri colori. «Il mio più grande sogno», afferma Stefano Varrella, «è tornare a vivere qui, in questa città, nonostante la distruzione e la criticità della situazione. Il mio cordone ombelicale con L'Aquila si è rafforzato. Inevitabilmente». Dopo quella notte.

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