La caccia ai 13 appalti d'oro

Terremoto e ricostruzione, le mani della 'ndrangheta sugli appalti: dalle carte della procura emergono i piani della cosca per i lavori privati. Al centro delle accuse, il costruttore Stefano Biasini

L'AQUILA. Sono tanti gli aspetti, per certi versi clamorosi, che spuntano fuori dalle carte della accusa nell'inchiesta «Operazione Lypas». A cominciare dal tentativo, arrivato quasi a buon fine ma poi sventato, di far ottenere alla 'ndrangheta 13 sostanziosi appalti nella ricostruzione.
Inoltre, nonostante gli affari fatti finora non fossero di grande valore, gli accertamenti bancari della Finanza avrebbero permesso di verificare come gli indagati fossero proprietari o avessero disponibilità di beni eccessiva rispetto alle loro dichiarazioni dei redditi e delle attività svolte.
E' questo uno dei dati che maggiormente hanno insospettito finanza e polizia nell'inchiesta che ha portato in cella quattro persone accusate di fare da basisti alla 'ndrangheta per accedere agli appalti della ricostruzione pesante, ovvero le case inagibili in seguito al terremoto e classificate E.

Sotto accusa, per concorso esterno in associazione mafiose, ci sono Stefano Biasini aquilano, 34 anni, imprenditore, residente a Pianola, Antonino Vincenzo Valenti 45 anni di Reggio Calabria, Massimo Maria Valenti, (38) reggino ma residente all'Aquila in via Caprini 14 e Francesco Ielo (58) anche lui reggino ma residente ad Albenga. I tre calabresi sono imprenditori legati alla cosca Caridi-Zindato-Borghetto.

Le altre motivazioni essenziali che hanno portato il giudice Marco Billi a firmare le richieste di arresto, come emerge dalle indagini, stanno nella loro consapevolezza di agevolare l'ingresso della malavita organizzata negli appalti e nella reiterazione del reato.
Ma, tornando gli accertamenti bancari, gli esiti hanno portato alla richiesta di sequestro preventivo accolta dal giudice che, per esempio, ha «sigillato» almeno una decina di conti correnti bancari accessi da Biasini in diversi istituti i credito aquilani, oltre ad alcuni fabbricati e tre autoveicoli. Anche se va detto che tali beni possono essere di provenienza familiare. Secondo la finanza gli esiti di questi accertamenti collimano con quanto ascoltato nelle intercettazioni.

Gli indagati, va detto, avevano ottenuto finora solo un paio di appalti per circa 200mila euro per case da riparare con pochi danni. Uno di questi lavori è stato fatto in un palazzo in viale della Croce Rossa 119. Lì i lavori, secondo le accuse, li avrebbe dovuti fare l'impresa edile di Biasini ma in realtà furono effettuati da una ditta indicata da Francesco Ielo e addirittura da Santo Giovanni Caridi. I lavori furono fatti talmente male che gli inquilini (ignari delle presenze di dubbia reputazione) decisero di affiancare una nuova ditta a quella che già c'era non potendo mandarla via per ragioni tecniche.
Ma quello che maggiormente allarma gli investigatori è che gli accusati erano sul punto di accordarsi sui lavori in ben tredici palazzi inagibli, classificati E, certamente una torta appetibile. Del resto ognuno di questi palazzi poteva garantire lavori per un paio di milioni di euro.
C'è poi l'aspetto della reiterazione del reato e del tentativo di evitare l'applicazione delle misure di prevenzione. Infatti, secondo le accuse, nonostante un anno fa ci fossero stati gli arresti dei loro presunti referenti, «Stefano Biasini e Francesco Ielo hanno insistito sulla medesima linea di condotta e hanno continuato a intessere i rapporti già instaurati». Delle intercettazioni «si manifesta l'intenzione di non voler rescindere il cordone ombelicale con la 'ndrangheta».

«Si ritiene che l'elevato grado di pericolosità sociale degli indagati» dice il giudice «imponga forme assolute di controllo dei loro movimenti e dei loro contatti che possono essere assicurate solo con la custodia in carcere». «Gli indagati», secondo la magistratura,«pur non organicamente inseriti nell'associazione criminosa, si sono prestati consapevolmente per far ottenere agli affiliati fittizie intestazioni societarie allo scopo di evitare le misure di prevenzione. Gli indagati con la loro alacre collaborazione e sfruttando il loro inserimento nella vita imprenditoriale aquilana hanno svolto un ruolo essenziale di raccordo tra affiliati e il territorio rappresentando un ponte di collegamento indispensabile per far espandere la cosca in Abruzzo». Tra le attività di copertura logistica per permettere l'insediamento della cosca di Caridi se ne segnala una in particolare: Vincenzo Antonino Valenti, svolgeva una attività commerciale per conto dello stesso Santo Giovanni Caridi che ne sarebbe stato il reale gestore aprendo una sede a Reggio Calabria e un'altra all'Aquila in via Persichetti 18.

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