La rivolta dimenticata ha 40 anni

Battaglia per il capoluogo, la primavera aquilana nella città smarrita

L'AQUILA. Sampietrini volanti lungo il corso, proprio là dove oggi i sassi, invece, sono tutti belli fermi. I 40 anni dei moti dell'Aquila, la rivolta scoppiata quando fu messo in discussione il ruolo del capoluogo di regione, arrivano e passano senza lasciare traccia. La città sparsa e smarrita, che anche oggi s'interroga sul proprio futuro, ma stavolta alla luce della devastazione del terremoto, assiste impassibile al ricorso storico di un destino tutto ancora da decifrare.

LA RIVOLTA. Il più grande sommovimento popolare cittadino, dal Dopoguerra a oggi, passa quasi sotto silenzio. Nessuno, stavolta, ha pensato di realizzare quei sampietrini personalizzati, con la targhetta rossa di latta «Trent'anni dopo», come avvenne nel 2001. Nessun convegno organizzato dalla Curia metropolitana, stavolta. Dei 40 anni trascorsi da quelle vicende se ne sono ricordati gli ultrà rossoblù, che in curva hanno esposto uno striscione «W i moti del 1971», e i simpatizzanti di Casapound che hanno promosso un incontro sull'argomento nella loro sede sociale. Fuori, invece, tira tutt'altra aria che di rivolta. Sembra prevalere il senso di smarrimento. Giusto un anno fa il movimento delle carriole aveva guadagnato il secondo posto dopo quell'unica grande ribellione. Unica, appunto. Come l'occasione che portò agli scontri di piazza fissati per sempre nella storia della città. Dalle foto dell'epoca spuntano celerini coi caschi e aquilani incappucciati che li fronteggiano, automobili rovesciate, negozi sventrati e dati alle fiamme, sedi dei principali partiti politici (Dc, Psi e Pci) assaltate e distrutte. Strade sotto assedio, barricate, assalti alla questura e una dura, durissima repressione. All'epoca dei fatti, nel 1971, era sottosegretario al ministero dell'Interno l'aquilano Nello Mariani, storico socialista. Anche la sua abitazione fu presa di mira dai manifestanti. Quella di Luciano Fabiani, all'epoca consigliere regionale Dc, fu data alle fiamme.

IL COMPROMESSO. La scintilla scoppiò per colpa del compromesso, della spartizione degli assessorati decisa di notte, dentro lo studio del prefetto, dopo un assalto a colpi di monetine agli spaventati consiglieri regionali che si ritirarono in buon ordine riprendendo la seduta senza pubblico. Una soluzione all'italiana, ai tempi delle potenti correnti democristiane dei gaspariani e dei nataliani. Dopo i moti del luglio 1970 nella Reggio Calabria del missino Ciccio Franco, L'Aquila non volle essere da meno. L'occasione fu la seduta nella quale si doveva votare lo statuto della Regione Abruzzo. Emilio Mattucci era il primo presidente di quel consiglio regionale. L'accordo trasversale, passato con 38 voti favorevoli su 40 (contrario il missino Ferri, astenuto il socialista Susi) prevedeva per L'Aquila il ruolo di capoluogo regionale ma lasciava la facoltà, per il consiglio e la giunta, di riunirsi a Pescara e all'Aquila. Ci fu chi disse che quella congiunzione fu soltanto e semplicemente un errore di lettura: si voleva dire all'Aquila «o» a Pescara. Soluzione peggiore, soprattutto per gli aquilani già sulle barricate. Pescara fece il pieno di assessorati (sette), L'Aquila scese in piazza per una settimana di scontri che la proiettarono sulla ribalta nazionale. Dopo arresti, ferimenti, devastazioni, la pacificazione fu sancita da un comizio di Pietro Ingrao il 7 marzo.

IERI E OGGI. Anche allora, ironia della sorte, c'era un comitato cittadino. Si chiamava «di azione» e aveva chiesto, nei giorni caldi della votazione sul futuro dell'Aquila, prove pacifiche e manifestazioni di dissenso incruente ai concittadini infuriati per lo scippo. Si passò in un baleno dalle parole ai fatti, la rivolta prese piede e dilagò in centro come in periferia. Allora, senza Internet, il comitato parlava alla gente con grossi manifesti. Ma non fu ascoltato. Dopo aver consigliato «manifestazioni corrette e di alto senso civico» e «prove ammirevoli di alto civismo», proprio nel tentativo di far cessare gli scontri di febbraio-marzo quel comitato scrisse sui muri: «In queste ore tanto dolorose, la nostra amata città è seriamente danneggiata nel suo patrimonio morale, culturale, civile, nei suoi beni materiali!». Parole del 1971. Sembra oggi. La soluzione? Come ieri, il compromesso.

© RIPRODUZIONE RISERVATA