Le accuse a don Paolo per la morte del confratello

La perpetua del prete assassinato: «Sono qui per guardarlo negli occhi» Presentate eccezioni dai legali dell’ex parroco di Pizzoli. Udienza rinviata

TRIESTE. A parlare nel corridoio al secondo piano del Tribunale tradendo emozione, rabbia e forse anche risentimento, è Eleonora “Laura” Dibitonto, l’assistente di don Giuseppe Rocco, l’anziano sacerdote ucciso il 25 aprile del 2014 nella Casa del clero di Trieste. «Sono venuta qui per guardarlo negli occhi. Perché quella sera nella Casa del clero c’erano solo quello e monsignor Rocco». “Quello” è don Paolo Piccoli, 52 anni, l’altro sacerdote ora in Friuli ma per anni parroco di Pizzoli. È ritenuto dal pm Matteo Tripani l’assassino: colui che ha stretto le proprie mani al collo di monsignor Rocco. Ma don Piccoli ieri, davanti al gup Giorgio Nicoli, non c’era. Assente. È rimasto a Imperia, ben lontano da Trieste, dov’era stato mandato dal vescovo Crepaldi dopo che il clamoroso caso era scoppiato e la bufera giudiziaria lo aveva colpito, anzi travolto. Chi era presente invece era una nipote di monsignor Rocco che si è costituita parte civile – come hanno fatto altre due parenti – tramite l’avvocato Libero Coslovich. Se don Piccoli dovesse essere condannato per l’omicidio, dovrà dunque anche risarcire i parenti della vittima. È stato – di fatto – questo l’unico atto formale avvenuto nell’udienza preliminare iniziata con una pioggia di eccezioni da parte dei difensori del sacerdote, gli avvocati pordenonesi Claudio Santarossa e Stefano Cesco. Nella loro memoria depositata nella cancelleria hanno rilevato un’irregolarità relativa a un secondo prelievo del dna effettuato a Piccoli nello scorso maggio. Il cui referto non è mai finito nel fascicolo acquisito dai difensori. In effetti proprio quella del dna – preso nell’agosto del 2014 dai carabinieri del Ris quando don Piccoli era solamente il supertestimone del delitto – è senza dubbio la “prova regina” delle indagini sul giallo del seminario. Quelle analisi avevano “fotografato” il dna di una serie di piccole macchie di sangue trovate sotto il corpo di monsignor Rocco, senza vita sul pavimento vicino al suo letto. Già allora era emerso che il profilo genetico era quello di don Piccoli come era stato accertato dalle verifiche scientifiche dei Ris di Parma. Che erano risaliti all’identità del sospettato attraverso i cosiddetti “tamponi volontari”, ovvero i campioni di saliva resi dalle persone convocate, all’epoca, dagli inquirenti. Il presunto assassino, in occasione di una delle deposizioni che lo avevano coinvolto, si era difeso sostenendo di essere affetto da una malattia dermatologica che gli provoca delle piccole emorragie, anche alle mani, e che il sangue si sarebbe potuto propagare nei paraggi del corpo senza vita di monsignor Rocco perché era stato proprio lui, don Piccoli, a impartirgli la benedizione subito dopo che era stato trovato morto. Sempre rimanendo al di fuori dall’aula, la Dibitonto ha così ricordato quel momento: «Quella mattina don Piccoli non si era nemmeno avvicinato al corpo di monsignor Rocco. Monsignor Rocco aveva anche segni di traumi al volto. E gli mancava la catenina che teneva sempre con sé...». (c.b.)

©RIPRODUZIONE RISERVATA