Le opere d’arte nel museo-bunker

Celano, viaggio fra statue e dipinti «fuggiti» dalle chiese aquilane.

CELANO. Il rumore sordo di un cancello che si chiude: non siamo in un penitenziario ma dentro un museo. Sia davanti che dietro ai cancelli ci sono gli occhi elettronici del sistema di video sorveglianza che registrano 24 ore su 24 ogni più piccolo movimento. Una pattuglia dei carabinieri molte volte al giorno verifica che sia tutto a posto. Sì, perché nel museo delle Paludi di Celano (che sorge su un’area coperta di 3.800 metri quadrati) c’è oggi la più grande e preziosa raccolta di opere d’arte d’Abruzzo. Fino al 5 aprile la gran parte delle statue, dei quadri e degli oggetti sacri erano nelle chiese e nei musei dell’Aquila. Dopo il terremoto sono state salvate dai vigili del Fuoco, dai volontari di Legambiente, dai tecnici della soprintendenza col coordinamento del vice commissario ai beni culturali Luciano Marchetti e portate in questo posto che da fuori sembra quasi un rifugio antiatomico.

Quando entro, accompagnato dalla direttrice del museo Geltrude Di Matteo vado subito a cercare la statua della Madonna delle Grazie di Onna. E’ poggiata dietro al cancello, davanti c’è la statua della Madonna di Roio. Qualche anno fa avevo scritto un libricino per ripercorrere la storia che c’era dietro a quelle due immagini sacre. La leggenda racconta che entrambe furono trovate in Puglia dai pastori. La transumanza delle pecore dall’Abruzzo aquilano (che riprese con molto vigore a metà del XV secolo) al Tavoliere non è stata solo un fatto economico ma si è trascinata dietro storie e tradizioni che hanno poi esaltato la fede popolare e hanno alimentato i riti religiosi che ancora oggi coinvolgono emotivamente le popolazioni.

La prima cosa che mi è venuta in mente rivedendo le «nostre» Madonne è che quelle immagini esprimono tutta la loro forza evocativa se stanno nei luoghi in cui vengono fatte oggetto della devozione dei fedeli. Vederle lì, dentro quel museo-magazzino fanno un po’ tristezza: lo sguardo è sempre quello, esprimono ancora tutta la forza artistica che gli scultori hanno voluto dar loro, ma è come se mancasse qualcosa, e quel qualcosa è l’affetto, le lacrime, i gesti e i canti degli onnesi, dei roiani, degli aquilani. La discesa della Madonna (dalla nicchia viene portata da parroco e Priore della Congregazione fra i fedeli) è un rito che a Onna si ripete solitamente ogni secondo sabato di maggio: mi sembra ancora di sentire i “botti” dei fuochi pirotecnici, il “pezzo” eseguito dalla banda musicale, l’inno con le voci che si mescolano al suono dell’organo a canne.

E l’organo (che risale all’inizio del 1900) è lì, a due passi dalla statua della Madonna, salvato anche lui: le canne sono state smontate, a fianco c’è perfino lo sgabello di legno su cui siedeva l’organista. Ci sono finanche gli spartiti e i fogli sparsi con le parole delle canzoni che il coro parrocchiale eseguiva durante la messa.
Mi giro e ho quasi una visione. E’ la statua di gesso di Sant’Antonio Abate che stava nella chiesa di Onna dentro la sua nicchia “scavata” nel muro di fronte a quello dove si trovava la nicchia colorata d’azzurro della Madonna delle Grazie: saio nero, barba lunga e bianca, il porcellino al fianco. Chissà perché ero convinto che fosse andato distrutto. Invece no, è lì, nel museo di Celano, intatto.

Lo sguardo poi si confonde: ci sono le croci, le tele del 1700 fra cui quella più preziosa firmata da Vincenzo Damini: rappresenta Sant’Emidio che sulla mano ha un paese. Sant’Emidio è il protettore dai terremoti: ma nei giorni successivi al sei aprile è dovuto scappare anche lui da Onna.
Messe quasi in fila ecco le statue dei Santi che si trovavano nella chiesa di Santa Maria Assunta a Paganica: li riconosco perché erano fra le tante immagini sacre che venivano (e sono certo verrano ancora) portate in processione a Paganica il martedì di Pasqua, giorno di festa in onore della Madonna d’Appari. A due passi l’Immacolata che è stata riportata a Paganica l’otto dicembre per la tradizionale celebrazione religiosa prevista in quel giorno.

Guardo il pavimento. Una striscia bianca delimita la zona dove sono depositate le opere. Sulla striscia ci sono le indicazioni sulle chiese di provenienza: Sant’Eusanio, San Gregorio, Paganica, Onna e poi Santa Maria del Suffragio, la Cattedrale. Un elenco infinito. Ogni opera ha la sua scheda. «Qui è tutto al sicuro, gli aquilani possono stare tranquilli» dice la direttrice.
Mentre il suono sordo del cancello che si richiude risuona nelle enormi stanze entro in una grande sala. Sopra a grossi tavoli ci sono le tele più danneggiate. E’ una sorta di pronto soccorso in cui si effettuano i primi interventi. Più in là uno spazio ancora più grande: è la “sala operatoria” dove i restauratori cercano di restituire alle opere d’arte danneggiate tutto l’antico splendore.

Quando esco dal museo mi sento rassicurato: ora so dove è la “mia” Madonna, dove si sono rifugiati Sant’Antonio e Sant’Emidio. E’ come se fossero in vacanza. Ma li aspettiamo e forse anche loro non vedono l’ora di tornare fra noi.