Morì dopo trasfusione infetta, agli eredi andrà un milione

L'Aquila. La donna fu ricoverata per un intervento di routine ma poi si ammalò di una grave forma di epatite che comportò complicazioni letali. A pagare il risarcimento sarà il ministero della Salute

L’AQUILA. La battaglia legale su un caso di malasanità di oltre 30 anni fa e si è conclusa in questi giorni con un mega risarcimento che supera il milione di euro stabilito dal giudice civile Antonella Camilli.

Un risarcimento a carico del ministero della Salute che andrà agli eredi della donna aquilana che all’inizio degli anni ottanta fu ricoverata al San Salvatore per un semplice intervento alla colecisti ma si ammalò di epatite per una trasfusione del sangue infetta. Epatite che in seguito a una serie di complicazioni l’ha portata alla morte. In particolare il ministero della Salute dovrà versare agli eredi 915mila euro a titolo di danno non patrimoniale che sarebbe spettato alla donna danneggiata e 160mila euro a ciascuna delle due figlie per il danno morale.

Si è trattato di una battaglia legale fortemente voluta dalla stessa donna che si era ammalata, poi morta un mese dopo il sisma del 2009, e proseguita dalle figlie che si sono affidate all’avvocato di fiducia Mary Corsi, per avere un giusto ristoro dopo decenni di sofferenze. A pagare sarà il ministero e non la Asl in quanto si tratta di problematiche connesse alle trasfusioni di sangue. Una sentenza certamente importante in quanto ci sono ancora molti casi simili in Italia che attendono una decisione e questo può essere un verdetto pilota.

«Dalla lettura attenta della consulenza medica», si legge nella motivazione del giudice di primo grado, «emerge chiaramente che la signora in conseguenza del contagio ha riportato un grado di invalidità permanente pari all’85 per cento, e pertanto, considerato che all’epoca del fatto la signora aveva 49 anni, le deve essere liquidato il danno nella sua veste biologica».

Ma la sentenza è importante anche sotto l’aspetto della prescrizione che non ha trovato applicazione. «Infatti il tribunale», come spiega l’avvocato Corsi, «dopo avere confermato la legittimazione passiva del ministero della Salute per omessa sorveglianza e vigilanza in materia sanitaria ha riconosciuto non prescritto il diritto al risarcimento disattendendo in parte la recente giurisprudenza in merito che annienta le speranze dei malati con sentenza di rigetto per via della prescrizione». «Invero molti giudici», aggiunge il legale,«ritengono di applicare il termine di prescrizione di cinque anni, per far valere i propri diritti, a far data dal deposito della domanda amministrativa di indennizzo. Ma ricordiamo che la Corte di Cassazione aveva stabilito che il giorno dal quale la prescrizione decorre parte dal momento in cui il soggetto ha avuto la effettiva conoscenza sia del danno che del probabile responsabile».

«Da un attento esame della documentazione» si legge nella motivazione, «e in particolare dalla documentazione medica disposta d’ufficio emerge chiaramente che la signora ha avuto conoscenza dell’evento del danno il 13 marzo 2005 ma la gravità dello stesso e la riferibilità eziologica riferita alle trasfusioni e quindi la individuazione del potenziale autore del danno è stata accertata il 17 marzo del 1999. In particolare nel 1999 è stata riconosciuta dalla competente commissione medica il relativo indennizzo previo accertamento della riferibilità dell’evento lesivo alle trasfusioni praticate dai sanitari dell’ospedale dell’Aquila». Il termine da considerare sotto il profilo della prescrizione è quello decennale e dunque non ci sono problemi visto che la citazione era nei termini in quanto del 2008.

Il giudice ha poi ribadito la responsabilità ministeriale. «Nonostante il test di rilevazione della epatite C sia stato introdotto solo nel 1988», dice il giudice «già dal 1960 la scienza mondiale aveva gli strumenti idonei a rilevare la presenza del virus nel sangue. Quindi anche in assenza di un test identificativo il ministero aveva comunque il dovere di praticare metodi alternativi esistenti che consentivano di effettuare indagini sui donatori e controlli sul plasma».

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