Non caccia i morosi: Cialente condannato

La Corte dei Conti gli chiede 30mila euro, stesse cifre per Pelini e Moroni La dirigente delle Politiche sociali Del Principe dovrà tirarne fuori 60mila

L’AQUILA. Confusi e felici, un po’ come nella canzone. Così la sezione giurisdizionale della Corte dei Conti affresca le figure del sindaco Massimo Cialente, dell’assessore all’Assistenza alla popolazione Fabio Pelini, dell’ex assessore Alfredo Moroni e della dirigente comunale Patrizia Del Principe, tutti condannati dalla Corte dei Conti – in 146 pagine di sentenza – per danno erariale in relazione alla vicenda della gestione complessiva del pesante fardello del Progetto Case e Map, dai canoni di compartecipazione alle quote condominiali. Non considerano la gravità della situazione, palesano gravi carenze organizzative, fanno salire la morosità «a livelli abnormi», tollerano chi non paga e tardivamente operano per il recupero del dovuto, ora finalmente avviato a definizione. Una condanna per complessivi 150mila euro senza vincolo di solidarietà – cifra ben lontana, tuttavia, dai 12 milioni complessivi, tre a testa, chiesti dalla Procura – ripartita secondo le seguenti quote: 30mila ciascuno per Cialente, Pelini e Moroni e 60mila per Del Principe. Sentenza ristretta rispetto alla richiesta, e che potrebbe, pertanto, essere appellata alle sezioni centrali dallo stesso procuratore che sostiene l’accusa, Roberto Leoni, ben prima di una delle parti convenute. Condanna per un danno da liquidarsi «secondo equità e ricondotto a giustizia», scrivono i giudici, «stimandolo in misura complessivamente pari a euro 150mila, somma idealmente commisurata a una quota compresa tra l’1 e il 2% del coacervo di mensilità di autonoma sistemazione risparmiabili, come conteggiate in atti e contestate in citazione». Bocciato, dunque, il moltiplicatore di Finanza e Procura «secondo i rigidi algoritmi».

«PAGAVA CHI VOLEVA». Dalle austere stanze di quello che fu il convento (poi ex carcere) di San Domenico, il collegio formato da Luciano Calamaro (presidente), Federico Pepe (giudice), Gerardo de Marco (relatore), tira fuori una sentenza articolata, destinata a varcare i confini di un tribunale contabile entrando a forza, per elevarlo di tono, nel dibattito politico cittadino. Una sentenza tanto attesa da essere annunciata più volte dai boatos (materia, in questo caso, buona per le recchie fredde di Sant’Agnese) ben prima del deposito, datato 4 giugno. Sentenza con implicazioni sociali, contenute in alcuni passaggi su cos’è, oggi, la città uscita dal sisma. Su cosa sono gli aquilani, borghesi o meno, che non pagano. E aspettano di vedere l’effetto che fa. E quelli che pagano, e lo fanno perché hanno una coscienza civica più sviluppata di altri. E quelli che non possono proprio pagare. E quegli altri che, rappresentanti eletti degli uni e degli altri, sanno che c’è un buco enorme ma si rimpallano le competenze (come emerge nelle pieghe delle difese di politici e tecnici) oppure evocano scenari apocalittici da rivolte di piazza e interventi umanitari Onu se si farà uno solo degli sfratti annunciati. Che poi la questione centrale, per i giudici, non sono tanto gli sfratti, quanto la complessiva gestione di una situazione «palesemente critica, con la piena consapevolezza dei politici, in un’inerte confusione mostrata dal Comune per circa 2 anni nel tollerare che i pagamenti fossero effettuati “a discrezione degli interessati”, in una situazione emergenziale sia finanziaria sia abitativa, nell’ambito della quale il Comune (e lo Stato) erano fortemente impegnati in termini finanziari per il pagamento di Cas, utenze e altri costi di ricostruzione, mentre si tollerava che i beneficiari degli alloggi potessero non far fronte ai propri debiti, senza alcuna distinzione tra i casi di fragilità sociale e i casi di azzardo morale da parte di popolazione “benestante”». E ancora: «La “politica” attendeva le iniziative della “dirigenza”; la “dirigenza” attendeva istruzioni dalla “politica”; nel frattempo, pagava chi voleva». Quando le virgolette valgono più delle parole.

INTOLLERANZE. Il tirare fuori i morosi dalle Case e il mettervi altri aventi diritto (potenzialmente morosi), per la Procura avrebbe consentito consistenti risparmi di autonoma sistemazione. Tuttavia, i giudici scrivono che «non interessa, ai fini del decidere, stabilire se l’inerzia discendesse da calcolo politico, come sostenuto in citazione, da un errore di valutazione o da mera disorganizzazione: in entrambi i casi si tratta di omissioni connotate dall’oggettiva “gravità”». Quindi l’affondo: «Non è tollerabile, in uno stato di diritto, che alcuni cittadini soltanto corrispondano quanto dovuto a un ente pubblico, mentre altri, nelle stesse condizioni, si sottraggano a tale adempimento, in maniera eclatante, senza che l’amministrazione assuma in proposito alcuna iniziativa, non tanto e non solo a tutela delle proprie finanze, ma anche in adesione a intuitive ed elementari aspettative di legalità e imparzialità, che necessariamente devono connotarne l’azione».

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