«Ricostruire subito per non far fuggire le giovani generazioni»

Walter Capezzali (Deputazione Storia Patria) «Bisogna innovare ma con grande equilibrio»

L’AQUILA. Walter Capezzali è nato a Bettona (Perugia) nel 1940, vive all’Aquila dall’età di 5 anni. Laureato in giurisprudenza. Giornalista, è stato collaboratore fisso di quotidiani e direttore di periodici a carattere culturale; per otto anni membro del Consiglio nazionale dell’Ordine. Direttore per quasi 30 anni della Biblioteca provinciale «Tommasi» dell’Aquila e stato in tale veste dirigente della Provincia responsabile del settore cultura e editoria. Dal 2004 al 2008 direttore delle Biblioteche scientifiche della sede romana dell’Università Cattolica. Autore di monografie e saggi è presidente della Deputazione di Storia Patria negli Abruzzi.

L’AQUILA. Walter Capezzali ha 70 anni. Ha iniziato giovanissimo col giornalismo - passione che non lo ha mai abbandonato - e poi è vissuto in simbiosi con i libri come direttore della Biblioteca provinciale Tommasi. Oggi è alla guida della Deputazione di storia patria la cui sede dall’abbazia di Collemaggio, dopo il sisma, si è trasferita a Bazzano, dove c’è l’Archivio di Stato.
Dottor Walter Capezzali cosa ricorda di quella notte del sei aprile?
«Il sabato e la domenica precedenti ero stato in gita a Lucca con il gruppo degli Amici dei musei. Il programma prevedeva il ritorno all’Aquila intorno alla mezzanotte fra domenica e lunedì. Poi - oggi dico per fortuna - il rientro fu anticipato e sono tornato a casa, nella zona di piazza San Pietro - palazzo Vastarini Cresi - intorno alle 21,30. Dopo la prima scossa, ha telefonato mia figlia che abita un po’ fuori l’Aquila, nella zona della Mausonia, e ha insistito per farci andare a dormire a casa sua. E siamo andati. Per cui al momento della scossa forte non ero nella mia casa in centro storico».

La sua casa nel centro storico in che condizioni l’ha ritrovata?
«All’inizio pensavo peggio. Tra l’altro nella stessa stanza dove avevo la mia biblioteca di circa 10.000 volumi avevo anche un acquario con 150 litri d’acqua. Ho pensato che fosse andato distrutto e che i libri fossero caduti sul pavimento e quindi nell’acqua. Invece l’acquario si è mosso di pochi centimetri dalla base su cui si trovava. I pesciolini purtroppo, tenuto conto del tempo che è passato prima che potessi rivedere casa mia, sono morti. L’abitazione ha retto bene anche se i danni ci sono».
Dal punto di vista emotivo come ha reagito alla devastazione che il terremoto ha provocato alla città?
«Ammetto che per un certo periodo ho avuto gli incubi. E questo mi capitava durante la notte, fra le tre e le quattro: vedevo libri bruciati e biblioteche distrutte. Inoltre l’emergenza e i mille problemi che sono ad essa legati, inizialmente non ti fa riflettere poi piano piano cominci a ragionare e a cercare di salvare il salvabile che per me erano fra le altre cose la mia biblioteca, l’attività dei Solisti aquilani, la Deputazione di Storia Patria. In poche parole le passioni di una vita».

Che città è stata “sorpresa” dal sisma del sei aprile?
«Duole dirlo ma L’Aquila era una città da tempo in decadenza. Purtroppo negli ultimi anni non è mai riuscita a valorizzare il suo ruolo di città della cultura. In pochi la conoscevano, molti l’hanno scoperta solo dopo il terremoto. Ricordo che negli anni passati i romani che capitavano per caso all’Aquila si stupivano di una città così bella a due passi dalla capitale. Il problema è che è stato fatto sempre molto poco per veicolarne l’immagine verso l’esterno».
E questo perchè è accaduto?
«Credo che sia un po’ nel carattere degli aquilani di guardare con sospetto a chi arriva da fuori. Vorrei dire che L’Aquila era una città non troppo sorridente e poco disposta ad aprirsi. Gli aquilani di oggi sono gli eredi di quei pastori transumanti che vivevano fondamentalmente una dimensione di vita solitaria. Quando però qualcuno è riuscito a rimuovere questa maschera di distacco e insofferenza allora nell’aquilano ha trovato più che un amico, direi quasi un fratello di sangue».

Questa chiusura, questo carattere poco propenso ad accogliere chi è estraneo alla città, è forse un vizio di origine, che nasce cioè con la fondazione della città nel tredicesimo secolo?
«Non direi questo. In realtà L’Aquila, quando nasce - nella seconda metà del 1200 - nasce proprio per offrire ai suoi abitanti che arrivano dai castelli del contado una opportunità di aprirsi verso altre città soprattutto in funzione economica. Lo schema, valido ancora oggi, è che uniti si fanno più cose e meglio. Sono i commerci la spinta alla fondazione dell’Aquila e il meccanismo funzionò bene per oltre due secoli, dal basso medioevo al Rinascimento. Non dimentichiamoci che all’epoca le strade più sicure erano quelle che passavano per le zone di montagna. Nel 1300 e nel 1400 per andare da Firenze a Napoli si passava per la via degli Abruzzi e L’Aquila potè avere scambi fecondi con le due città. Sappiamo bene che il commercio, l’economia fiorente, il denaro portano con sè anche cultura e quello fu per L’Aquila il periodo migliore della sua storia. Anche i centri del circondario vivevano bene perché erano in simbiosi con la città».

Quando inizia la decadenza?
«Indubbiamente la conquista spagnola nella prima metà del 1500 interrompe la crescita della città e anzi per certi versi la riporta indietro nel tempo. Il contado viene di nuovo diviso e affidato ai baroni che avevano il solo obiettivo di sfruttare le popolazioni e non certo farle sviluppare dal punto di vista economico e culturale. Poi i possedimenti dei baroni sono passati man mano alle famiglie aquilane che si erano arricchite grazie alla redditizia attività legata alla transumanza».

Il terremoto del 1703: si potrebbe dire che anche allora la forza della natura si è abbattuta su una città in crisi.
«Sì anche allora si trattava di una città che non era più in grado di competere. Restava però una ricchezza notevole in mano alle grandi famiglie di armentari. E basti vedere il grande sforzo economico con il quale fu ricostruita la città anche se ci vollero 40 anni. L’Aquila fu un esempio pilota di architettura barocca che poi ebbe sviluppi importanti anche a Roma. E vorrei sottolineare una cosa. In molti dei palazzi più belli della città ricostruiti dopo il terremoto del 1703 si nota la particolarità dei cortili: evidentemente il sisma non li aveva distrutti completamente e furono lasciati. Oggi abbiamo splendidi cortili rinascimentali in bellissimi palazzi barocchi».

A quando e a che cosa possiamo far risalire questa chiusura, potremo dire caratteriale, degli aquilani?
«Indubbiamente nel periodo a cavallo fra il 1700 e il 1800 L’Aquila era una piccola città che non aveva aperture significative verso l’esterno. E di questo si risente a tutti i livelli. L’economia si regge ancora - e lo sarà almeno fino all’Unità d’Italia - sulla transumanza e quindi sull’allevamento ovino».
Lei ha parlato dell’Unità d’Italia. Il prossimo anno si celebreranno i 150 anni dall’Unità. Che ruolo ebbe l’Abruzzo?
«Un ruolo fondamentale. Molti degli avvenimenti che l’hanno preceduta hanno avuto svolgimento in Abruzzo e come Deputazione stiamo lavorando affinchè venga dato il giusto risalto a quel ruolo».

E L’Aquila alla fine dell’Ottocento che città era?
«Era una città dove c’era un buon ceto borghese, con una certa vivacità intellettuale. Basti pensare che aveva un proprio giornale quasi quotidiano e ci fu una esplosione di iniziative editoriali. Gli eredi delle famiglie facoltose diventarono medici, avvocati, scienziati. Ci fu una prima trasformazione urbanistica della città. Al posto della chiesa di San Francesco, sull’onda della cultura laicista che allora imperava, nacquero palazzi che dovevano essere destinati agli studi scientifici. E’ lì che trovarono sistemazione il Liceo, il Convitto e la Biblioteca».
Poi arrivò il Ventennio fascista.
Al di là delle ideologie va riconosciuto ad Adelchi Serena, l’uomo più in vista del fascismo all’Aquila, il tentativo in parte riuscito da dare uno stimolo alla vita cittadina. E intuì l’importanza che avrebbe potuto avere il turismo invernale».

Nel dopoguerra invece che accade?
«Devo dire di aver conosciuto personaggi di notevole spessore anche culturale - e faccio un nome per tutti, Pasquale Santucci - che intendevano la politica come servizio».
I politici di oggi invece?
«Forse non è tutta colpa dei singoli, sicuramente ottime persone, ma per una serie di motivi, non solo locali, oggi il peso dei nostri politici nei luoghi dove si decide non è molto alto e questo si ripercuote negativamente sulla città».

Come ricostruire oggi L’Aquila?
«Io spero solo che si faccia presto. Il centro storico dell’Aquila deve tornare ad essere abitato in tempi ragionevoli. Io ho 70 anni e a Dio piacendo non vorrei tornare nella mia casa a piazza San Pietro a 85-90 anni. Tra l’altro il problema non è tanto che ci torni o meno io, ma che se passa troppo tempo non ci torneranno le giovani generazioni, è a loro che dobbiamo una ricostruzione veloce e, in fondo, lo dobbiamo anche alle generazioni che ci hanno preceduto».

Ricostruire come era o innovare?
Questa è una grande questione a cui è difficile rispondere. Per esempio io non rifarei tale e quale il transetto a Collemaggio. E vorrei spezzare una lancia a favore del soprintendente Moretti il cui restauro di Collemaggio, 40 anni fa, fu criticatissimo. Io credo che invece ebbe una giusta intuizione a ridare alle navate - che oggi hanno retto - l’aspetto originale. Per il resto penso che si debba agire con equilibrio senza volere conservare a tutti i costi ma nemmeno innovare a tutti i costi.

Su che cosa deve puntare L’Aquila per avere un futuro e per aprirsi al mondo?
«Credo che bisogna puntare molto sul turismo culturale e religioso grazie al grande patrimonio ambientale, storico, artistico, musicale, teatrale, cinematografico che abbiamo. Dobbiamo insomma valorizzare la nostra identità ma non tenendocela stretta ma offrendola anche agli altri.

La Deputazione ha presentato un progetto rivolto alle giovani generazioni. Di che si tratta?
«E’ un po’ la conseguenza di quello che dicevo prima: dobbiamo aprire i nostri archivi, le nostre biblioteche, i nostri scrigni d’arte e farli conoscere soprattutto ai giovani. E quale mezzo migliore per farlo di un portale su internet. La conoscenza e la circolazione delle idee sono state da sempre il motore della storia e lo sono ancora più adesso che il motore della città è stato fermato dal terremoto. Dobbiamo farlo ripartire e al più presto possibile».