Settant’anni fa la strage impunita dei 33 martiri

Capistrello, un libro di Antonio Rosini ripercorre l’episodio La follia nazista non risparmiò nessuno, neppure un 13enne

CAPISTRELLO. Era il 4 giugno 1944. Erano gli ultimi giorni della guerra. Proprio lo stesso giorno fu liberata Roma dalle forze alleate. Da allora sono passati 70 anni, le cause di quell'eccidio non sono ancora chiare e i soldati nazisti coinvolti non hanno ancora un nome. E forse non lo avranno mai. Ci restano il coraggio dei 33 martiri di Capistrello, il loro sacrificio e le storie e il ricordo di quei momenti, di quei giorni tragici ed eroici allo stesso tempo. Ricordi di tempi terribili, come li chiama Antonio Rosini nel libro “Otto mesi di ferro e fuoco”.

IL RASTRELLAMENTO. Emblematiche la testimonianza di Giovanni Rosini allora 16enne e la sua fuga tra le case di via Napoli che gli permise di sfuggire ai tedeschi. «Il mio rione», racconta, «è come un paese autonomo da Avezzano. A metà via c’è un luogo che si chiama “Piazza del trave”. Lì ci si incontrava, e ancora oggi avviene, naturalmente, senza darsi appuntamento. Un giorno, nel primo pomeriggio, mentre stavamo lì in molti (ricordo Duilio Palumbo, Domenico Di Matteo, Romolo Di Pietrantonio e tanti altri) vedemmo arrivare un camion con soldati tedeschi. Questi si fermarono a cento metri circa da noi e rivoltisi ad un barbiere che era fuori la sua bottega, dopo un po’ lo caricarono brutalmente sul camion. Il barbiere era balbuziente e forse per questo spazientì i tedeschi che non attesero la risposta alla richiesta di salire sul camion». Quei ragazzotti avezzanesi non si erano ancora resi conto che si trattava di un rastrellamento. «Lo capimmo quando il camion si mosse verso di noi», spiega Rosini, «con i soldati al fianco, armi alla mano. Come fulmini saettammo tutti di corsa per i vicoli che erano a portata di mano». A salvargli la vita fu la sua velocità: «Fui rincorso da un tedesco con l’arma in pugno, ma io avevo sedici anni, ero di gamba lesta, di corsa mi infilai in una casa dove una donna faceva il pane, nascondendomi sotto il letto». Fortuna volle che quella casa aveva due uscite, ed essendo la porta esterna della camera da letto aperta, il tedesco attraversò la casa e proseguì oltre. A via Napoli non fu preso nessuno e anche il barbiere, che da solo non serviva allo scopo, fu rilasciato. Molti episodi come questo ripercorrono quella parte di storia che ebbe il culmine nell'eccidio.

I 33 MARTIRI. Con una lucida e raggelante normalità, che permea tensione e drammaticità, Antonio Rosini, racconta quell'episodio che segnò la storia della Marsica e chiuse un periodo triste per l'Italia e più in particolare per l'intera comunità locale. Erano gli ultimi giorni della guerra, e i poveri contadini volevano mettere in salvo il proprio bestiame ed evitare che i tedeschi e i fascisti potessero perpetrare rappresaglie sulla popolazione a causa delle azioni di resistenza. Tutti pensavano di poter tornare presto liberi per ricostruire la città e lavorare i campi. «Tutti avevano una grande speranza nel cuore», racconta Rosini. Purtroppo molti non tornarono e non rividero più i loro cari».

L'ECCIDIO. «Un giorno infausto», descrive Rosini quel 4 giugno 1944, il giorno della santissima Trinità. «La mattina, verso le sette», ricorda, «i contadini sulle montagne di Luco erano intenti a mungere le pecore, altri accudivano ad altre faccende, qualcuno di guardia era distratto. All’improvviso una voce straniera disse qualcosa, tutti si voltarono e videro facce di stranieri e di traditori, tutti con l’arma puntata. Nessuno si poté muovere. Gli armati ordinarono qualcosa, tutto a bassa voce, evidentemente avevano paura degli altri contadini sparsi per la boscaglia». Poi venne preso il bestiame, ma il peggio doveva ancora arrivare. «I contadini e i prigionieri incolonnati, con le mani alzate», descrive Rosini, «camminavano sperando ognuno di trovare il posto più adatto per fuggire. I trentatré contadini e i prigionieri furono portati nella rimessa della stazione ferroviaria di Capistrello. Tre tedeschi ebbero un breve colloquio ed uno di loro indicò una fossa di bomba. La terribile decisione era presa. I contadini vennero fatti uscire uno alla volta. Venivano portati sull'orlo della fossa e due gendarmi, a breve distanza, sparavano alla nuca. Cadde il primo, cadde il secondo, il terzo contadino tentò la fuga, scappò, a dieci metri lo raggiunse una scarica e rimase. Venne il quarto, poi il quinto, il sesto; si era fatto già un mucchio. Dallo stabile si senti una voce di fanciullo strillare, era Giuseppe Forsinetti, di tredici anni. Questo gridare dava fastidio ai camerati. Ordinarono di prenderlo, per farlo fuori subito. Nello stabile ci fu resistenza, ma invano». Poi un uomo gridò “Viva l’Italia! A morte i tedeschi!”, ma i contadini seguitarono ad alternarsi sull'orlo della fossa della morte, fino a trentatré.

Pietro Guida

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