«Sono vivo grazie a 2 piccole pesti»

Guido Fioravanti: avevo cambiato casa per non sentire più schiamazzi

L’AQUILA. Riesce a trattenere a stento le lacrime mentre racconta di quella tragica notte e del crollo del palazzo in via Campo di Fossa. Lì, sotto quella montagna di macerie, sono rimaste sepolte 27 persone. Tra loro anche i suoi genitori Claudio Fioravanti e Franca Ianni.

Guido, 30 anni, è riuscito a salvarsi «solo perché» dice «avevo lasciato mesi prima quella casa. Lì non riuscivo più a stare per via di quelle “piccole pesti”, i due figlioletti del dottor Cinque, che correvano da una stanza all’altra dell’appartamento proprio sopra al nostro. Ed ora, che tutto è silenzio e dolore, darei non so cosa per poter riascoltare quel frastuono di giochi e di voci. Io sono ancora qui grazie a quei due angioletti rimasti sepolti con la loro mamma sotto le macerie. Senza i loro giochi chiassosi non sarei mai andato a vivere a Scoppito, nella casa di famiglia che mio padre aveva ristrutturato».

Poi il pensiero torna ai suoi genitori. «Papà era un avvocato e forse per questo si fidava delle istituzioni. Aveva creduto a chi continuava a ripetere che non c’era nulla da temere. Mamma, invece, era preoccupata. E quelle due ultime scosse, una dietro l’altra, l’avevano spaventata più del solito, tanto da voler andare a dormire da nonna, in una casetta al Torrione che credeva più sicura.

E aveva ragione a crederlo visto che il terremoto non sembra averla neppure sfiorata. Ma papà l’ha convinta a restare e anch’io al telefono ho cercato di rassicurarla fidandomi di valutazioni che nulla avevano di scientifico. Ma questo lo abbiamo scoperto solo dopo. Le sue ultime parole sono state: speriamo bene. Era circa mezzanotte ed è stata l’ultima volta che ho ascoltato la sua voce. Poi alle 3.32 è arrivata l’apocalisse. La corsa verso L’Aquila senza neppure rendermi conto di ciò che era accaduto. Con me la mia compagna Francesca. A via XX Settembre abbiamo visto che il palazzo accanto all’Anas non c’era più. Poi la Casa dello studente crollata e di fronte un altro palazzo sventrato. Abbiamo percorso quei pochi metri, fino all’imbocco di via Campo di Fossa, con il cuore in gola.

Una manciata di secondi, poi un incubo senza fine. Il palazzo era stato come inghiottito. Ho chiesto aiuto, ma i primi ad arrivare sono stati due amici, Roberto Parisse e suo padre, allertati da mia sorella che vive a Roma. Sono stati loro a tirar fuori le prime persone scavando con pale e piccozze. Hanno fatto il possibile, riuscendo a portare in salvo quattro persone tra cui uno studente che abitava in una mansardina. Poi l’arrivo dei vigili del fuoco e la corsa contro il tempo. Mamma e papà li hanno tirati fuori intorno alle 19, ma per loro non c’era più nulla da fare, così come per le altre 25 persone rimaste lì sotto. Non so spiegare il dolore che si prova. So che è una cosa per la quale non c’è cura. Mi manca la vitalità di mia madre e il sostegno di mio padre con il quale lavoravo. Ora spero solo che venga fatta luce sulle cause del crollo.

Quel palazzo è stato costruito alla fine degli anni ’60. Tempo fa sono stati eseguiti dei lavori nel vano caldaia che si trova al centro dell’edificio, nella parte collassata. Non so altro, ma spero solo che l’inchiesta non venga insabbiata. E che i processi non vengano trasferiti altrove. Ma le esagerazioni di certi comitati potrebbero prestare il fianco a queste richieste». Speranze e rimpianti. E poi la rabbia per non essere riuscito a recuperare nulla, se non due foto del matrimonio dei genitori, tra le macerie portate via e custodite in un «parcheggio». «Voglio almeno ritrovare la penna che papà mi ha regalato il giorno della mia laurea. I carabinieri ci hanno restituito una cassetta di sicurezza, ma non era lì che mamma teneva le sue cose preziose». E infine il tormento per aver creduto «a chi era venuto a dirci che non c’era nulla di cui preoccuparsi».

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