APIS
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Oddio l’autobus, corro una decina di metri. Salgo.
- Buongiorno Mario -, dice l’autista, preme il pulsante che chiude lo portello - anche
oggi per un pelo -. Trafelato, gli accenno un sorriso, mi sistemo la giacca, timbro il
biglietto e mi siedo in uno dei posti sul lato sinistro. Mi rilasso e guardando fuori dal
finestrino, vedo gli alberi in germoglio e mi rendo conto che la primavera è in arrivo.
Il pensiero degli insetti che stanno per tornare mi provoca un gran fastidio. In fondo è
ancora presto per loro.
Il campanello della fermata mi scuote: ne mancano sette alla mia. Scendono e salgono
altri passeggeri assonnati, osservo schifato quelli in piedi: come fanno a toccare le barre
sudice o il chiamino unto? Tasto il pantalone, il fazzoletto è a portata di mano. Tra il
brusio, giornali che vengono sfogliati, musica dalle cuffie del ragazzo davanti a me,
sento uno strano rumore, familiare. Con la schiena dritta e l’orecchio teso cerco di
capire da dove viene. Sembra qualcuno bisbigliare. Mi giro attorno lentamente. Il
bisbiglio continua, è piccolo, vicino. Guardo sulla finestra alla mia sinistra, ma non
vedo niente. Ruoto lievemente la testa verso l’angolo del finestrino.
Smetto di respirare.
Un’ape.
Mi ha visto.
M’irrigidisco. Cosa cavolo ci fa in giro di questo periodo, è presto! Ok, calmati.
Riprendo a respirare. L’ape è insonnolita, lenta. Non farti accorgere da lei. Fai finta di
essere morto, poi studiala. Sei preparato. È piccola, gialla e nera, occhi enormi neri e
dorso peloso.
Ape. Ape operaia. Ape operaia che punge. Apis Linnaeus.
Oddio.
Sudo, sotto le ascelle, lungo la schiena, nel colletto della camicia.
Non farle capire, mantieniti lucido e non iperventilare. Mancano ancora cinque fermate.
Potrei schiacciarla col fazzoletto. Sì, ottima idea, schiacciala col fazzoletto, ma poi il
pulsante. Maledizione, ne ho solo uno, non voglio rischiare la salmonellosi.
L’ape inizia a muoversi, cammina sul finestrino, sbatte le sue stupide ali, fa quel rumore
che mi fa trasalire. Si dice bombisce. Bombisce, si, bombisce. Che schifo. Vuole
sfondare il vetro con la testa, ha capito di essere in gabbia, si agita. Il pungiglione pulsa.
Sono senza scampo.
Se continua a sbattere così forte sul vetro, al prossimo contraccolpo mi verrà addosso e
mi pungerà a morte. Mario non cedere. Trova una soluzione. Alla prossima fermata
scendi con un balzo dall’autobus. Andrò a piedi, sono solo due soste.
Ecco la fermata, ma una massa scolaresca adolescenziale invade l’autobus, cerco una
via, ma se l’ape se ne accorgesse e mi seguisse? Rimango immobile e inerme sul mio
posto a qualche centimetro da lei.
Sono ancora in trappola.
E invece no.
L’ape si posa sulla nuca di quello con le cuffie davanti a me, lui non si è accorto di
niente. Sentirà dolore e non saprà perché. Le cammina sulla pelle con le zampette
pelose, cerca il punto per trafiggerlo. Lui muove la testa, forse crede sia una mosca,
l’ape rimane attaccata. Il tizio la scaccia con la mano, si alza, si prepara a scendere.
L’ape è tornata a svolazzare a pochi millimetri dal mio orecchio. Sono in una pozza si
sudore. Penultima fermata, la prossima è la mia, ho un brutto presentimento. Non ho la
forza nemmeno di soffiare e mandarla qualche metro più in là, ho paura che possa
indispettirsi. Mi ronza attorno, come a un fiore, pronta a succhiarmi. Ha capito tutto,
sente la mia angoscia, ha deciso di divertirsi.
Ed eccola che si posa sulla mia guancia.
Un urlo mi si strozza in gola, gli occhi fuori dalle orbite vanno verso destra e sinistra
come in cerca di aiuto, il viso bianco, le mascelle serrate.
L’autobus si ferma. È il mio turno.
I passeggeri scendono, salgono, si siedono, si spingono, chiedono permesso a mezza
bocca.
Io sembro trovarmi in una bolla, nessuno mi vede, sono solo con l’ape sulla faccia.
Nessuno mi aiuterà, morirò sotto gli occhi di tutti con un solo colpo di pungiglione.
I portelloni si chiudono. I’autobus riparte.
Questo sarà un viaggio eterno.
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