CAMBIO TEMPORALE MA È SEMPRE IL PASSATO LA CASA DEL PASSAGGIO

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Un giorno il passero arrivò in una piazza. Giunse sprovveduto, con nel becco il corto fiato di chi troppo ha volato. Planò per sbaglio, accanto ad un pezzo di carta, stropicciato dalla mano e gettato dalla perfidia contro la natura. Era disgustato per la tracotanza umana verso l'amore per il mondo, indi decise di salire, anche se un po' quell’alveo antropico gli piaceva, ma non ci pensò più di una volta. Giunse in alto, in cima ad un dolce campanile. Attese qualche secondo e poi, all'improvviso, un vento sottile, quasi fosse soltanto suo, gli sussurrò una strada. Era già tutta disegnata. Il passero era entusiasta, inebriato, a tratti innamorato. Non riusciva a capire come, tutto d'un colpo, fosse passato dall'inesattezza di un gesto alla perfezione di una previsione. Acconsentì e, dopo aver respirato profondamente due o tre volte, ricominciò a volare imponendosi di seguire l’odore di questo netto presagio.

Col cuore pieno intraprese il viaggio e coi polmoni belli gonfi si tenne in alto. Fece chilometri. Percorse mari monti e fiumi. Si divertì. Assisti scettico alle corse dei gitani e ai trastulli dei cani. Si fermò per cibarsi e per bere ai piedi della gente, impavido e coraggioso, vero come la scritta sul muro. La prima settimana fece bello, poi piovve, quindi venne l'inverno. Solo il bianco della neve e il gelo della notte a ridere delle sue corte ali. Dovette rallentare e mano a mano cedere ai rigori del tempo. Un po' era preoccupato, forse vergognoso, per non essere stato all'altezza dei piani. Ma non si dava per vinto. Al freddo e al gelo, asciugava le lacrime e ripartiva. Sempre. Comunque.

Vide ancora nonni, polli e vacche. Macchine con dietro i trattori e uomini con davanti animali. Vide tutto, o quasi. Assorbì l'aria malsana della storta generazione e tremò all'ombra di un lampione. Fece tutto, o quasi. Volava. Certo, volava e, forse, gli bastava. C'erano delle volte in cui rideva a tal punto da dimenticarsi tutto, persino il nome che l'aveva macchiato, persino l'origine della sua pazza natura. Poi se n'accorgeva e cercava d’allontanare le briciole di pane per redenzione, ma sempre un amico lo distraeva e, peccato dopo peccato, come la morte dopo la malattia, la tratta da dover perseguire lo minacciava. Non poteva sbagliare. Non poteva.

Volava.

Un mattino si svegliò e, puntuale come la nuvola di marzo, il ricordo del ritorno si fece vivo. Avrebbe dovuto completare e sfatare la sua molle origine. Rivendicare il lutto della sua infanzia e ridarla grande agli occhi piccoli di chi non si può concedere al grande. Si preparò e si fece coraggio per l'ultimo tratto finale.

Tornò su quella piazza. Salì sul campanile e sedette per alcuni istanti aspettando il vento arrivare. Attese ore ed ore sotto il cocente fuoco d'estate. Iniziarono a cantare i grilli e poi i galli, si fece l'alba e si fece tramonto. Il cielo si coprì di rosso e poi di stelle. Si fermò a guardare la luna che triste lo rimirava cento volte ancora, come una madre devota, umida e triste, costretta a incoraggiare nel buio il suo splendore. Piansero insieme per la morte del vento, per la caduta di quel funesto dì, quando qualcuno, al fresco di maggio, gli raccontò un chiaro cammino. Nulla avanzava se non ciò che non aspettava, e quasi crollava. Con le zampette si teneva stretto al mattone tentando di non sparire anch'esso, ma annaspò sorridente nella certezza che dopo la nona vengono i vespri.

Volò.

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