inchiesta urbanistica

D’Alfonso prosciolto, no al nuovo processo

La Cassazione boccia il ricorso del pubblico ministero Varone contro i 18 imputati, tra cui l’ex sindaco e i costruttori

PESCARA. La Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dal pm Gennaro Varone contro il proscioglimento dei 18 imputati coinvolti nell'inchiesta sull'urbanistica al Comune di Pescara, tra i quali figura l’attuale presidente della Regione Abruzzo, Luciano D’Alfonso - all’epoca dei fatti contestati sindaco di Pescara. Le accuse contestate, a vario titolo, erano di corruzione e concussione per lavori concessi e promessi in cambio di favori riferiti a una ventina di accordi di programma tra il 2006 e il 2008.

I giudici romani hanno scritto che «i delineati motivi di ricorso sono infondati, sino a lambire i contorni dell’inammissibilità per la sostanziale genericità e assertività dei contenuti censori e la loro indeducibilità, laddove alla proposta tematica della qualificazione giuridica dei fatti ascritti agli imputati si sottende una rivalutazione puramente fattuale delle fonti di prova estranea al giudizio di legittimità».

L’ex sindaco D’Alfonso era stato prosciolto nell’aprile 2013 nell’ambito dell’inchiesta del 2006 dedicata all’urbanistica e a una ventina di accordi di programma. Il giudice per l’udienza preliminare Gianluca Sarandrea aveva deciso di scagionare D’Alfonso, il suo ex braccio destro Guido Dezio e altri 15 imprenditori tra cui Michele D’Andrea (scomparso recentemente), Franco Lamante, Lorenzo Di Properzio, Giovanni Di Vincenzo ed Enio Chiavaroli. Nel fascicolo stato aperto inizialmente dal pool formato da Pietro Mennini (oggi procuratore a Chieti) e dai pm Giampiero Di Florio e Giuseppe Bellelli e poi arrivato sulla scrivania di Varone, c’erano quindi imprenditori, ex dirigenti, consiglieri del Comune e una ventina gli accordi programma finiti nell’inchiesta affidata alla Squadra Mobile allora diretta da Nicola Zupo. Il pm Varone ha impugnato il proscioglimento ma la Cassazione ha respinto il ricorso.

«La censure articolate dal pm», hanno scritto ancora i giudici romani, «si traducono in massima misura in censure fattuali ovvero in prospettazioni rivalutative dei fatti storici integranti l’accusa elevata nei confronti degli imputati, vale a dire in temi e profili non scrutinabili nel giudizio di legittimità».

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