Discarica di Bussi, intervista ad Aceto: "Veleni sottoterra una strategia d’impresa"

Parla il pm che scoprì la mega-discarica nel 2007: "Un disastro doloso"

PESCARA. Sotterrare i rifiuti tossici a Bussi, vicino ai fiumi Tirino e Pescara, «è stata una strategia d’impresa» per risparmiare. Non ha cambiato idea, anche se sono passati quasi 10 anni, Aldo Aceto, primo pm che nel 2007 scoprì la discarica abusiva più grande d’Europa con le sue 600-700 tonnellate di veleni. Il magistrato pescarese, 53 anni, nel frattempo divenuto consigliere della Corte di Cassazione, se li ricorda ancora quei biglietti della Montedison in cui c’era scritto che «in giro non si doveva sapere niente». «Ho letto la sentenza di primo grado che ha assolto gli imputati ma non sono d’accordo: per me a Bussi c’è stato l’avvelenamento delle acque ed è stato un disastro doloso e non colposo», dice il giudice nel giorno dell’inizio del nuovo processo davanti alla Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila.

Come partì l’indagine sulla discarica di Bussi nel 2007?

«L’indagine partì nel 2006 quando ricevemmo dei dati sui pozzi dell’acqua potabile di Colle Sant’Angelo, a Tocco da Casauria, con tracce di sostanze inquinanti. Partì l’inchiesta ma non avrei mai potuto immaginare cosa ci fosse dietro. Poi, dopo un anno, al Corpo forestale di Pescara, all’epoca guidato dal comandante Guido Conti, fu riferito che la Montedison in passato aveva scaricato rifiuti tossici abusivamente in un terreno. Andammo sul posto e scoprimmo la discarica di Tre Monti: al primo scavo della ruspa uscì dal terreno una nuvola di fumo rosso».

La prima prova dell’inquinamento?

«Mi ricordo che mi telefonò Conti, allarmatissimo. Io gli dissi di fermarsi subito perché i lavori sarebbero dovuti continuare con una ditta specializzata ed elevate misure di sicurezza a causa della pericolosità di quei veleni».

Ascoltato dal Parlamento, subito dopo la scoperta della discarica, lei disse che Bussi non è New York e, quindi, che tutti sapevano. Allora, perché l’indagine partì solo nel 2007 e non negli anni precedenti?

«Che tutti sapessero cosa succedeva a Bussi, probabilmente, è sicuro. Di certo, non si pensava che la discarica potesse provocare quelle conseguenze devastanti. Del resto, alla Montedison, ci fu un’opera di sistematica copertura dei dati allarmanti: negli atti interni della Montedison, che abbiamo scoperto e sequestrato, si diceva che in giro non si doveva sapere niente».

Sempre secondo la sua deposizione, a Bussi si sotterravano i veleni di notte con un viavai di camion nei pressi della stazione ferroviaria e nessuno parlò: la gente del posto era sotto il ricatto del lavoro?

«Bussi è uno dei pochi paesi dell’interno che non soffrì dell’emigrazione: l’industria chimica costruita sui fiumi dava lavoro. È un tema ancora attuale, basti pensare all’Ilva di Taranto: è difficile che il diritto all’ambiente conviva con il diritto al lavoro. Genericamente, per le imprese, la tutela dell’ambiente si traduce in un costo che si riflette poi sul prezzo finale della merce prodotta e, quindi, sulla competitività dell’azienda. Lo smaltimento illegale dei rifiuti trae origine proprio dalla necessità di abbattere i costi: la Terra dei fuochi in Campania ne è un altro esempio. Ecco perché, durante l’indagine, dissi che quella della Montedison era una “strategia d’impresa” e non una condotta che poteva essere riferita al singolo direttore d’azienda: era una politica aziendale vera e propria».

Di fronte ai veleni di Bussi, cosa pensò da magistrato?

«Da sostituto procuratore pensai subito che sarebbe stata un’indagine difficilissima perché ipotizzare il reato di avvelenamento delle acque non era semplice, dalla ricostruzione del fatto fino alla qualificazione giuridica. All’epoca, poi, non c’era neanche la norma sul disastro ambientale: si parlava solo di disastro generico. E poi sapevo che l’accertamento delle responsabilità non sarebbe stato agevole».

E da cittadino?

«L’acqua potabile è un bene prezioso e io ho sempre detto che l’acqua minerale non dovrebbe mai sostituirla. Mi è dispiaciuto dovermi ricredere. Tecnicamente, poi, feci una scelta precisa: non contestai di aver cagionato morti e lesioni perché, alla base, non c’era un’indagine epidemiologica».

Avvertì pressioni durante l’indagine?

«No, mai. Se ci fossero state, l’avrei denunciato immediatamente».

Un’indagine come le altre?

«L’importanza degli inquinatori non mi ha mai preoccupato. Non ho mai pensato che se l’autore di un reato è importante, allora, potrebbero alterarsi gli equilibri del processo. A me interessavano solo i profili tecnici e cioè se c’era un nesso di causalità tra la discarica e l’inquinamento dei pozzi di acqua potabile a valle. Poi, l’accertamento delle responsabilità passò anche dall’analisi di documenti e testimonianze. L’ho messo nero su bianco, sull’avviso di conclusione delle indagini preliminari, che erano coinvolti i vertici della Montediscon: c’era la prova che la discarica fu costruita dalla Montedison su un terreno mai ceduto, come se non si dovesse sapere niente di quello che conteneva».

La prima sentenza, nel 2014, ha assolto i 19 imputati dall’avvelenamento, il reato più grave: cosa ne pensa?

«Ho letto la sentenza e devo dire che è argomentata e non superficiale. Comunque, io non sono d’accordo sull’insussistenza del reato di avvelenamento e con la riqualificazione del disastro doloso in colposo che è alla base della dichiarazione di prescrizione. Ma è anche vero che su questi temi, non ci sono principi giurisprudenziali consolidati a cui attingere e ci possono essere letture alternative degli episodi. Però, il fatto non è stato affatto smentito: che la discarica esista e che abbia provocato inquinamento non lo può mettere in discussione nessuno e la sentenza lo ha riaffermato con chiarezza senza peraltro escludere il disastro. Che è stato solo considerato non voluto. Le sentenze possono essere criticate ma vanno rispettate».

A febbraio saranno 10 anni dalla scoperta della discarica di Tre Monti e i rifiuti sono ancora lì: le sembra accettabile?

«Quell’area dovrebbe essere bonificata da parte di chi l’ha inquinata. Perché mentre noi parliamo, a Bussi, i rifiuti tossici rilasciano ancora sostanze inquinanti nella falda. La bonifica avrà un costo enorme e, forse, anche per questo c’è un problema di competenza. In parole povere, lì bisognerebbe togliere tutto e portarlo da un’altra parte per smaltire i veleni. Ma è un’opera necessaria perché l’inquinamento che parte da Bussi, passa per Chieti e arriva fino a Pescara».

C’è un dettaglio che ricorda dell’indagine?

«Il lavoro eccezionale dei ragazzi della forestale, la loro passione anche di fronte al rischio, la caparbietà del comandante Conti. Se la discarica fu scoperta è soprattutto grazie alla tenacia di quegli investigatori. Ma questa indagine deve insegnare anche che l’ambiente non può essere trattato come una cosa che non ci riguarda: la natura ci restituisce tutto ciò che le diamo e siccome viviamo di quanto beviamo e mangiamo, alla fine, quel tutto torna sempre a noi. Quel che può sembrare proficuo oggi, come risparmiare sullo smaltimento dei veleni, sarà dannoso domani».

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